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Mafia, colpo a un mostro che sa rigenerarsi

Tremila pagine (anzi 3.327) per scrivere la storia della nuova mafia del dopo Riina. E, allo stesso tempo, per colpirla. Se a morte, lo dirà il tempo. Però la ferita inferta è pesante, una lama che affonda nelle carni di un mostro che si stava rigenerando. Altro che catatonica, boccheggiante o sbandata. Cosa Nostra a Palermo aveva già da tempo elaborato il lutto per la perdita del – non da tutti amatissimo – capo dei capi.

E nel frattempo aveva deciso di riesumare codici, metodi, regole e perfino volti del suo passato per riorganizzare il presente e proiettarsi nel futuro. Dando la chiara sensazione di aver definitivamente archiviato la controversa stagione stragista e con essa il marchio di fabbrica corleonese. Sostituendo al tritolo le strizzatine d’occhio, al sangue gli affari, agli attacchi le connivenze.

Dieci anni dopo i 99 arresti dell’operazione Perseo, la prima nella quale gli inquirenti ebbero contezza del tentativo di ricostituire la Cupola pre-Riina, l’operazione di ieri consegna anche una data per certi versi storica: il 29 maggio di quest’anno. Il giorno in cui è tornata in vita la commissione provinciale. Magari senza la grandeur che nel 1956 portò all’hotel delle Palme anche boss d’oltreoceano per organizzare i clan e definire gerarchie di comando. Ma con l’intento deliberato di tornare proprio a quel modello, spazzato via negli anni Ottanta dal monarca sanguinario morto tredici mesi fa dopo aver passato in gattabuia l’ultimo quarto di secolo.

E che la riorganizzazione mirasse proprio a una gestione più strettamente condivisa e quasi «democratica» (se mai tale termine può associarsi a logiche mafiose) lo dimostra il fatto che a capo della stessa commissione sia stato scelto sì un anziano boss vecchio stampo, ma certamente non dotato del carisma e del pedigree del supercapo. Insomma, tornano a valere le vecchie regole, vengono riproposti i vecchi codici, restano in sella i vecchi boss, non ci si fida granché delle nuove leve e dei loro comportamenti. Ma è una mafia che comunque sa rigenerarsi. E la cui capacità di penetrazione e collusione è efficace più che mai. Perché la droga resterà sempre un business sicuro (oltre che di strette relazioni con le altre mafie sparse per il globo), le estorsioni continuano pur dovendosi confrontare con la rivolta di commercianti sempre più disposti almeno a collaborare quando non a denunciare. Ma settori come i rifiuti, le scommesse, il commercio clandestino, l’edilizia, i grandi appalti presuppongono la capacità di riuscire a entrare nel meccanismo di gestione di una cosa pubblica con cui si scende a patti. Le coppole e le lupare sono il passato, oggi sostituite dai gemelli ai polsi e le stilografiche nel taschino.

Fa meno male una mafia così? Assolutamente no. Fa meno paura un Settimo Mineo qualsiasi al posto di Totò Riina in cima alla Cupola? Assolutamente no. Perché quello che ci consegna questa operazione è un duplice importante messaggio. Il primo: l’azione inquirente e repressiva da parte degli organi dello Stato è negli anni divenuta sempre più capillare, costante ed efficace. È vero, Matteo Messina Denaro è ancora latitante, ma è tutta da dimostrare la sua attuale reale capacità di comandare e disporre. Per il resto, il flusso verso le patrie galere e il regime del 41 bis è generazionalmente molto cresciuto ormai.

Il secondo: come sottolinea il procuratore antimafia Cafiero de Raho, non è la sola azione repressiva che potrà infliggere il colpo decisivo alle mafie tutte. Toccherà allo Stato convincere il cittadino onesto che la sua collaborazione è fondamentale in questa battaglia. In cui però il nemico da sconfiggere oggi magari uccide meno ma trova troppe porte aperte e troppe mani da stringere. Senza più il bisogno di sporcarsele di sangue.

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