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Il poliziotto buono che fu sciolto nell’acido, Cacciatore racconta la morte di Emanuele Piazza

PALERMO. Volevo gustarmelo fino alla fine e con calma, proprio come ogni thriller che si rispetti e di cui non vuoi sapere la fine.

Ti prende la storia ricostruita da Giacomo Cacciatore, lo scenario che la ospita, una Palermo quasi giornalmente insanguinata da faide tra clan mafiosi, la figura di questo Serpico palestrato e amante degli animali che faceva il poliziotto. Forse, perché anche il ruolo ufficiale di Emanuele Piazza è rimasto per lungo tempo avvolto nel giallo, come la sua scomparsa. Inghiottito un giorno dal nulla e mai tornato a casa, con la memoria intrappolata in una spy story ancora oggi aggrovigliata e con molte ombre. Dicono di lui...questa è stata l'unica certezza, la «consolazione» che un processo ha dato ai suoi familiari. Ma non è bastato a tacitare mille domande sul ventinovenne 007 invisibile che teneva in un cassetto di casa la lista dei 136 latitanti più ricercati. Omertà istituzionali, ritardi, depistaggi.

Ci sono tutti gli ingredienti di un romanzo in Uno sbirro non lo salva nessuno, ma di immaginato non c'è niente. La cruda verità degli atti giudiziari supera la fantasia e scrive una delle pagine più misteriose degli anni che precedono le grandi stragi di mafia. Anni di piombo, e non è un eufemismo, nei quali anche i rapporti tra buoni e cattivi avevano contorni sfumati. Emanuele conosceva bene il boss Ciccio Onorato. Erano cresciuti nella stessa borgata, frequentavano la stessa palestra. Un rapporto però sempre molto riservato: «Che due amici debbano fingere di non conoscersi o, al massimo, mostrare di essere legati da un saluto o poco più - scrive Cacciatore - non è stata Palermo a deciderlo, in questo 1989, ma chi ne governa una fetta: il mandamento mafioso di San Lorenzo. Perchè in un territorio che comprende Sferracavallo, Tommaso Natale, Mondello e Capaci ci si può considerare vicini di casa, sì è “zona nostra”, ti costringono a dire. Anche se tra le case e le vite di ognuno ci sono di mezzo chilometri. E scopi diametralmente opposti e aspirazioni agli antipodi». Emanuele ha un obiettivo preciso: diventare investigatore.

Entra in polizia nel 1980. Frequenta per sette mesi un corso di addestramento per le teste di cuoio e nell'83 lo assegnano alla scorta del presidente della Repubblica Sandro Pertini. Ma lui vuole essere operativo e lo trasferiscono alla Narcotici di Roma. Un passaggio che lo porterà quattro anni dopo a rassegnare le dimissioni. Era improvvisamente deluso e incupito. Cosa era successo, non lo svelerà mai a chiare lettere.

Come non parlerà del suo vero lavoro, agente dei Servizi segreti. Il Sisde lo confermò solo a sette mesi dalla scomparsa, alla quale si diede una giustificazione solo nel 1996. Per primo ne parlò Giovan Battista Ferrante: «Ho partecipato all’assassinio di un giovane robusto, proprietario di un cane e agente dei Servizi, che andava in giro a chiedere notizie sui latitanti con in mano un elenco di taglie...». Non ricordava il nome, ma tutti i particolari per fare sparire il cadavere. «Messo in due sacchi e sciolto in un bidone con l'acido solforico, in un stalla ai margini del paese di Capaci». Unico testimone, un cavallo. Ma le voci corrono, almeno tra gli umani, e la cosa era risaputa pure dall'amico Ciccio Onorato. Lo ammise più tardi, da pentito: «Uno sbirro buono di fronte a Cosa Nostra non lo salva nessuno».

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