PALERMO. Si è svolta questa mattina a piazza XIII Vittime a Palermo la cerimonia di deposizione di una corona di fiori davanti al monumento ai caduti di mafia, in occasione del trentennale dell'apertura del primo maxiprocesso. Fu il processo dei grandi numeri, a cominciare dalla folla di 475 imputati (ma molti padrini erano ancora latitanti) portati nell'aula bunker dell'Ucciardone costruita in tempi rapidissimi per ospitare un evento di forte richiamo. Mediatico soprattutto. Il 10 febbraio 1986, in una mattinata fredda e piovosa, davanti a quella che qualcuno definì una moderna «Astronave» della giustizia, si ritrovarono centinaia di giornalisti, fotoreporter, cameramen di tutto il mondo. La corte era presieduta da Alfonso Giordano, giudice a latere Pietro Grasso che diventerà procuratore di Palermo, procuratore nazionale antimafia e infine presidente del Senato. L'accusa era sostenuta dai pm Giuseppe Ayala e Domenico Signorino. Le accuse erano compendiate in una monumentale sentenza di rinvio a giudizio: in oltre 9 mila pagine descriveva la nuova struttura di Cosa nostra e il ruolo egemone dei corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano che si erano liberati dei gruppi tradizionali, decimandoli in una spietata guerra di mafia, e avevano organizzato la sistematica eliminazione di magistrati, politici, giornalisti, servitori dello Stato. L'impianto del processo poggiava sulle dichiarazioni di Tommaso Buscetta che aveva descritto la struttura verticistica di Cosa nostra, le sue strategie, i retroscena della catena di sangue che solo nel periodo tra il 1981 e il 1983 provocò mille morti. Il 16 dicembre 1987, dopo 349 udienze e 36 giorni di riunione in camera di consiglio, la corte emise la sentenza: 19 ergastoli, condanne per 2665 anni di reclusione. Per tutta la durata del processo la mafia aveva fatto tacere le armi. Ma, appena letta la sentenza, la tregua fu spezzata. L'impianto del processo fu confermato, condanne comprese, in appello e in Cassazione che il 30 gennaio 1992 scrisse l'ultima pagina di una sentenza storica. Ma proprio in quel momento si chiudeva la stagione del pool smembrato con la «bocciatura» di Falcone. Al giudice simbolo della lotta alla mafia il Csm preferì come capo dell'ufficio istruzione un anziano magistrato. Di lì a poco Cosa nostra avrebbe servito la sua vendetta con le stragi di Capaci e via D'Amelio. Ma, come prevedeva Falcone, la partita non si sarebbe chiusa. Il maxiprocesso segnò infatti la tappa più importante della riscossa civile della Sicilia.