È dal lontano 1884 che non si riesce a dare nome e cognome all’autore della significativa epigrafe che campeggia sul frontone del Teatro Massimo di Palermo: «L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita/ Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire». Da quella data la caccia all’autore si è trasformata, con alti e bassi, in una sorta di gara in cui si è detto e scritto di tutto in maniera fantasiosa e molto raramente sono state abbozzate ipotesi sorrette da qualche prova cui, però, non si è dato seguito, in sede pubblica, ai pur necessari approfondimenti. Nondimeno c’è chi non si è arreso e attraverso una incessante azione di scavo e ricerca prevalentemente negli archivi di questo giornale (e non, invece, nell’inaccessibile e ricco archivio degli architetti Basile, padre e figlio, che da decenni giace nei magazzini che gli eredi hanno preso in affitto in attesa di una decisione della Regione su quando e come far nascere la Casa-Museo) sono emerse rilevanti novità che permettono di affermare che è arrivato il momento di porre la parola fine alla plurisecolare discussione rivelando, senza tentennamenti, l’identità dell’autore della frase più fotografata dai turisti nel tempio palermitano della lirica. Una soluzione che è sempre stata lì, sotto ai nostri occhi, ma, come nei migliori giochi di enigmistica, ritenuta troppo facile per essere presa davvero in considerazione. Andiamo per ordine. Nella prima metà del secolo scorso di nomi ne sono stati formulati tanti fino a scomodare illustri autori dell’antichità classica e del periodo risorgimentale. Poi, negli anni ’70, lo storico e fine conoscitore della città Rosario La Duca, in più occasioni, tentò di fare un minimo di chiarezza sul controverso argomento attraverso la nota e popolare rubrica «La città perduta», apparsa con regolarità e per un lungo periodo sul Giornale di Sicilia. In base a numerosi suggerimenti formulati dai lettori, La Duca stilò una lista di presunti autori dell’epigrafe depennando, però, tutti quelli su cui non esisteva un briciolo di prova in loro favore. Alla fine nell’elenco rimasero solo due nomi: il filosofo, sacerdote e politico Vincenzo Gioberti (1801-1852) e il letterato, già sindaco di Palermo, senatore e ministro Francesco Paolo Perez (1812-1897). Il primo, Gioberti, è citato nel discorso commemorativo, come riferito da un lettore a La Duca, tenuto il 17 giugno 1891 dall’assessore ingegnere Giuseppe Cimino in occasione dei solenni funerali dell’architetto Giovan Battista Filippo Basile. L’assessore comunale ad un certo punto affermò: «Le parole del Gioberti, che egli (G.B.F.Basile - ndr) tolse ad impresa per iscolpirle nel frontone del nostro Massimo, rivelano il concetto che egli aveva dell’arte nobilissima da lui con tanto decoro professata». A giudizio di chi scrive e con il senno del poi, questa affermazione non è stata adeguatamente approfondita. La Duca, sbrigativamente, la definì «..fonte scritta , anche se non proprio di prima mano!». La considerò, addirittura, meno importante di un opuscolo, scritto dal gentiluomo Gaspare Caminneci, stampato nel 1884 e custodito nella biblioteca dei Cappuccini di Palermo, in cui si afferma che «…l’epigrafe ch’esiste in fronte all’edificio del teatro Massimo in costruzione è stata dettata dallo Egregio ed insigne scrittore Francesco P. Perez , senatore del regno d’Italia, amico mio da tempo…». Per La Duca «anche questa non è una fonte di prima mano, ma rispetto all’altra offre punti di vantaggio». Ragione per cui, a suo parere «se nessuno riuscirà a trovare nelle opere del Gioberti la frase riportata nella trionfale entrata del teatro Massimo, saremo inevitabilmente costretti ad assegnare la palma della vittoria a Francesco Paolo Perez». Un notevole contributo alla ricostruzione dei fatti, in maniera indiretta ma con una prova solidissima (non pubblicizzata, e quindi non a conoscenza di La Duca) era stato dato nel 1947 dallo scrittore e critico musicale Ottavio Tiby, nonno materno della moglie di chi scrive e autore del volume «I cinquanta anni del teatro Massimo 1897-1947». Tiby all’interno del libro ha lasciato, forse a futura memoria, un appunto, vergato di suo pugno, con il quale escludeva che l’epigrafe fosse ascrivibile al Perez per il semplice fatto che questi, sul Giornale di Sicilia, del 12 giugno 1884 ne aveva negata, inequivocabilmente, la paternità. Fatte le opportune verifiche nell’archivio di questo giornale, risulta effettivamente pubblicata, a pagina 3 dell’edizione del 12 giugno di 139 anni fa, la dichiarazione del senatore Francesco Paolo Perez, indirizzata al direttore, che pubblichiamo a corredo dell’articolo per comodità del lettore. Perez, prendendo spunto da quanto scritto dal Caminneci, ha voluto pubblicamente precisare che lui con l’epigrafe non c’entrava niente specificando «…ch’io non l’ho né scritto, né ordinato da Sindaco, né saputo avanti che fosse dipinta sul frontone di quel teatro». Ne consegue, dunque, che la «palma della vittoria», secondo i desiderata di La Duca, non può essere assegnata, sia nel presente che per il futuro, al letterato Perez. Ma nemmeno, tout court, al patriota Vincenzo Gioberti giacché nessuno, fino ad ora, nelle sue copiose opere, è riuscito a rintracciare la raffinata frase sull’arte e sul valore delle rappresentazioni teatrali. E allora? Prende finalmente il crisma dell’ufficialità ciò che si è sempre sussurrato fra gli studiosi più attenti e cioè che l’epigrafe è stata pensata e scritta dal progettista del teatro Giovan Battista Filippo Basile. Un genio dell’architettura ottocentesca europea, studioso e intellettuale di primo piano. Attivo garibaldino che si battè per l’unità nazionale ispirandosi ideologicamente agli insegnamenti dottrinari e filosofici di Vincenzo Gioberti, del quale aveva letto quasi tutti i libri che hanno influito non poco sulla sua formazione umana e professionale. Secondo lo storico dell’arte Massimiliano Marafon, docente universitario e autore di molti volumi fra cui uno contenente un contributo su alcuni aspetti dell’impianto decorativo del teatro Massimo, è assai improbabile che Basile senior, così attento a seguire anche i minimi dettagli costruttivi e con il suo bagaglio culturale, si lasciasse sfuggire l’occasione di comporre l’ammaliante epigrafe e di farla collocare nel punto più in vista del teatro, gioiello d’arte, destinato a diventare uno dei più pregevoli d’Europa. Sulla stessa lunghezza d’onda di Marafon, si colloca l’architetto Eleonora Marrone Basile, una pronipote dei Basile nonché conservatrice dell’archivio dei due illustri progettisti, la quale aggiunge: «Pur non avendo ancora rintracciato nell’archivio Basile un documento che ne attesti la paternità , l’ipotesi che l’autore della significativa e misteriosa epigrafe possa essere il suo architetto, è compatibile con l’attività di Giovan Battista Filippo Basile, la cui filosofia dell’arte unita all’etica professionale è attentissima agli aspetti della formazione, per la costruzione di un senso del futuro collettivo». Poi evidenzia che nel dettaglio, vedi il libro «Curvatura delle linee dell’Architettura antica, con metodo per lo studio dei monumenti», il grande G.B.F. Basile utilizza la locuzione «l’avvenire». Identica a quella che conclude la lunga epigrafe che da oggi non è più «orfana».