PALERMO. Non si va per date o non si sceglie per autori.
Ma è tutto il Novecento, nella sua completezza, unicità e compattezza, ad essere preso in esame.
Perché i nomi sono i capitoli di un viaggio per immagini che passa attraverso coloro che hanno raccontano il Secolo Breve, accogliendone i suggerimenti, le paure, la forza.
Ad iniziare da Renato Guttuso: raramente la «Vucciria» lascia lo Steri, ma capita per questa mostra in corso nelle Sale Duca di Montalto di Palazzo Reale.
Con la tela simbolo di Palermo – posta alla fine dell’infilata di opere, conclusione ed inizio nello stesso tempo - l’esposizione dà una spallata al continente e pone la Sicilia al centro del dibattito.
La mostra «Novecento Italiano» è stata organizzata dalla Fondazione Federico II, in collaborazione con C.O.R, Creare Organizzare Realizzare.
«La Federico II completa qui il suo percorso di rinascita e prosegue nella proposta di mostre che attirano visitatori da tutta la Sicilia – spiega il presidente dell’Ars, Giovanni Ardizzone, a fianco del direttore della Fondazione, Francesco Forgione - Dopo Botero e Ligabue era difficile continuare, ma la scelta di questo affresco sul Novecento mi sembra di ottimo livello».
E la scelta di Palermo non è certo casuale:
«Palazzo Reale e Cappella Palatina -dice Ardizzone - fanno parte dell’itinerario arabo-normanno che fa parte del patrimonio dell’Unesco».
La firma in calce è di un trittico di curatrici - Maria Teresa Benedetti, Lea Mattarella e Francesca Villanti – che hanno scelto le opere, caricandole dei cambiamenti storici e delle riflessioni sugli aspetti del mondo contemporaneo.
«È una mostra da leggere per la singolarità delle opere esposte che provengono, in gran parte, da collezioni private che sono state generose nell’aprire, non in modo consueto, i loro forzieri – spiegano -. Si tratta di un percorso che non vuole essere onnicomprensivo, impossibile viste le dimensioni della rassegna; ma un tentativo di costruire un tessuto ricco di rimandi storici, lungo tutto il Paese».
Sono almeno quindici i movimenti artistici rappresentati in questa esposizione: si va dal Ritorno al mestiere all’Idealismo, passando per la Metafisica del quotidiano, il Realismo magico, la Scuola romana, fino ad uno snodo importante come fu il Gruppo Forma; oltre a movimenti meno conosciuti e più specifici, come l’Onirismo siderale, gli Italien de Paris, il Primordialismo plastico, la Scuola di via Cavour e il Gruppo di Piazza del Popolo. Ogni visitatore è di fatto invitato ad immaginare il suo percorso ideale: in questo caso le scelte sono solo suggestioni, indicazioni, suggerimenti.
Apre il percorso espositivo una selezione di opere che fungono da ponte verso il Futurismo: da «La Guerra» di Giacomo Balla (1916) a la «Tête de jeune fille» di Gino Severini (1913), passando per la scultura di Boccioni «Forme uniche della continuità nello spazio» (1913).
Siamo tra un conflitto e l’altro, gli artisti si interrogano, si parla di «ritorno all’ordine» o «realismo magico».
Sono gli anni di De Chirico metafisico (il famoso, umbratile «Piazza Italia» è più tardo, del 1950, ma «I gladiatori» è di vent’anni prima) e del surrealista Alberto Savinio («L’isola dei giocattoli» è datato 1930), fino ai «Paesaggi» di Filippo de Pisis che trasformano l’impressionismo francese in un linguaggio italiano che guarda ai veneziani e li traduce, immergendoli nel Novecento. Alla «metafisica del quotidiano» si riallacciano le «nature morte» Francesco Trombadori, Antonio Donghi, Riccardo Francalancia, mentre le prime manifestazioni di quella che viene definita «Scuola Romana», si riscontrano in Corrado Cagli, Giuseppe Capogrossi, Emanuele Cavalli, che affermano il legame con la classicità e la storia.
La mostra corre e scorre: pagine per Mario Mafai e Antonietta Raphael, Franco Gentilini («La famiglia» è del 1934) e Mario Sironi («La famiglia del minatore» del 1934).
La prima parte si chiude con il forte realismo di Renato Guttuso che si immerge nel mercato palermitano assorbendone l’odore sanguigno, ma è anche capace di generare fantasmi con la sua precedente «Notte di Gibellina».
Da Capogrossi si giunge agli artisti del Gruppo Forma: Carla Accardi, Piero Dorazio, Achille Perilli, Ugo Attardi, Pietro Consagra, Antonio Sanfilippo. Alberto Burri e Lucio Fontana sono un linguaggio a parte, assoluti e perentori, come ha ricordato la bella esposizione catanese di pochi anni fa. La Pop Art sta tutta in un monocromo di Mario Schifano, l’Arte Concettuale e l’Arte Povera si condensano in Mario Merz, Enrico Castellani, Alighiero Boetti, Giulio Paolini e Jannis Kounellis, appena scomparso. Si chiude con Mimmo Paladino, che rappresenta la Transavanguardia, e con il siciliano Emilio Isgrò; Fabrizio Clerici nel più tardo «Sonno romano» svolge un surreale citazionismo, voce fuori dal coro, vero e proprio sonno interrotto o incubo metafisico.
La mostra sarà esposta fino al 31 agosto, ogni giorno fino alle 17.40, nei week end si prolunga fino a sera.
I biglietti possono comprendere anche la visita a Palazzo dei Normanni.
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