Un uomo delle istituzioni viene colpito quando «è diventato troppo pericoloso, ma si può uccidere perché è isolato». Nell’ultima intervista a Giorgio Bocca il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva descritto così la sua condizione: assediato dalla mafia, circondato da ostilità diffuse, lasciato senza i poteri che aveva reclamato quando era stato mandato a Palermo dopo i successi contro il terrorismo dove sarebbe stato ucciso da un commando mafioso con la moglie e l’agente di scorta il 3 settembre di 40 anni fa. La sua sfida alla mafia, cominciata a Corleone come giovane ufficiale dei carabinieri e proseguita a Palermo tra gli anni Sessanta e Settanta, era ripresa il 30 aprile 1982. Era stato appena ucciso Pio La Torre e Dalla Chiesa aveva dovuto affrettare i tempi per assumere di corsa l’incarico di superprefetto. Con il governo era stato chiaro: veniva per indagare anche sulla «famiglia politica più inquinata dell’isola», con un riferimento al gruppo andreottiano siciliano. Il suo progetto era quello di colpire la struttura militare di Cosa nostra e di spezzare il sistema di collusioni tra mafia e politica. Quei poteri reclamati e promessi non gli erano stati ancora conferiti quando venne ucciso - era il 3 settembre 1982 - con la moglie Emmanuela Setti Carraro e il suo collaboratore Domenico Russo. Sin dall’annuncio della nomina Cosa nostra preparava la sua offensiva. «Quando ho sentito alla televisione che era stato promosso prefetto per distruggere la mafia ho detto: prepariamoci, mettiamo tutti i ferramenti a posto, tutte le cose pronte per dargli il benvenuto: qua gli facciamo il culo a cappello di prete», raccontava Totò Riina al capomafia pugliese Alberto Lorusso in una conversazione intercettata in carcere. A sparare era stato un gruppo di fuoco di Cosa nostra ma c'era una «causale non direttamente ascrivibile alla mafia». Di questo era convinto Pietro Grasso quando, da procuratore nazionale antimafia, si chiese se si potesse affermare che "tutta la verità è stata accertata, che tutte le responsabilità sono state scoperte». Quella domanda resta ancora aperta 40 anni dopo la strage, sottolineano i giudici della corte d’assise: «Si può, senz'altro, convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale». Così si legge nella sentenza che ha condannato all’ergastolo con la cupola Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo e Nino Madonia. L’unica cosa certa l’ha scritta una mano anonima nel luogo dell’attentato: «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti». Allo sgomento della città fece eco l’anatema del cardinale Salvatore Pappalardo: «Mentre a Roma si discute Sagunto viene espugnata». Sagunto, cioè Palermo, era stata messa a ferro e fuoco da un sistema criminale che Dalla Chiesa aveva subito svelato con un rapporto contro 162 boss: il nucleo originario del maxiprocesso a Cosa nostra. Sul fronte delle collusioni le iniziative del generale, hanno scritto ancora i giudici, erano un «campanello d’allarme per chi traeva impunemente quanto illecitamente vantaggio dai rapporti tra la mafia e la politica, soprattutto nel mondo degli appalti». In quei cento giorni Dalla Chiesa ricevette segnali terrificanti. Il primo a giugno con la strage della circonvallazione: furono uccisi il boss Alfio Ferlito, l’autista del furgone che lo stava trasferendo da un carcere all’altro, tre carabinieri della scorta. Un mese dopo venne compiuta tra Bagheria e Altavilla Milicia, il famigerato «triangolo della morte», una mattanza culminata con un duplice omicidio: i cadaveri vennero caricati su un’auto lasciata davanti a una caserma dei carabinieri. Era l’ultimo atto della sfida. «L'operazione Dalla Chiesa è conclusa», fu la rivendicazione mandata al giornale L’Ora. Non era, per la verità, ancora conclusa se subito dopo toccò proprio al generale. La «coesistenza» di interessi, di cui parla la sentenza, incombe su uno dei tanti misteriosi episodi con cui Dalla Chiesa faceva i conti. La sera del delitto qualcuno andò a cercare nella residenza del prefetto lenzuoli per coprire i cadaveri. Ma allargò lo sguardo verso la cassaforte, dove il generale teneva documenti scottanti, tra cui un dossier sul caso Moro. Quando la cassaforte fu aperta, era vuota.