Palermo

Sabato 23 Novembre 2024

Palermo, le mani della mafia sulle scommesse: cinque condanne

L’arresto di Francesco Paolo Maniscalco
L’arresto di Girolamo Di Marzo.
L’arresto di Vincenzo Fiore
Salvatore Rubino
Christian Tortora
Un fermo immagine che risale all’operazione che portò agli arresti
Un fermo immagine che risale all’operazione che portò agli arresti
Un fermo immagine che risale all’operazione che portò agli arresti

La corte d’appello di Palermo ha condannato a pene comprese tra 4 e 11 anni cinque dei sette imputati del processo su infiltrazioni mafiose nel settore delle scommesse sportive istruito dalla Dda. Tre le assoluzioni. A 10 anni è stato condannato Salvatore Rubino, a 11 Francesco Paolo Maniscalco, a 9 Vincenzo Fiore, a 4 Girolamo Di Marzo, a 4 anni e 6 mesi Christian Tortora. Scagionati Elio e Maurizio Camilleri, difesi dagli avvocati Raffaele Bonsignore e Salvatore Agrò. Assolto anche Giovanni Castagnetta dall’accusa di intestazione fittizia di un’agenzia di scommesse (difeso dagli avvocati Salvatore Agrò e Alfonso Lucia). Gli imputati rispondevano, a vario titolo, di associazione mafiosa, concorso esterno in associazione mafiosa, riciclaggio e trasferimento fraudolento di valori aggravato dal favoreggiamento mafioso. Il processo, celebrato in abbreviato, nasce da una indagine della Finanza che ha svelato gli interessi dei clan nel settore dei giochi e delle scommesse sportive ed ha svelato le complicità di alcuni imprenditori che avrebbero riciclato il denaro sporco per conto dei boss. L’indagine portò al sequestro di attività economiche economiche e beni per oltre 40 milioni. Personaggi chiave dell’inchiesta erano l’imprenditore Francesco Paolo Maniscalco, in passato condannato per mafia ed esponente della «famiglia» di Palermo Centro, e Salvatore Rubino, che per conto dei clan avrebbe riciclato il denaro. Gli inquirenti hanno ricostruito il modo in cui le cosche si infiltravano nell’economia «legale» controllando imprese, gestite occultamente da loro uomini di fiducia. Come Christian Tortora, difeso dagli avvocati Ninni e Giuseppe Reina, che, partecipando a bandi pubblici, avevano ottenuto le concessioni statali rilasciate dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli per la raccolta di giochi e scommesse sportive. A consentire l'espansione sul territorio della rete di agenzie scommesse e di corner gestiti dalle imprese vicine alla mafia sarebbero stati i clan di Porta Nuova e Pagliarelli. Quest’ultimo avrebbe garantito l’apertura di centri scommesse. Dietro l’operazione c'era anche la cosca di Porta Nuova che reimpiegava i soldi guadagnati dagli investimenti nelle agenzie per mantenere gli affiliati mafiosi detenuti e per far avere un «vitalizio» ai familiari di Nicolò Ingarao, boss assassinato anni fa. Coinvolti nell’affare anche i «mandamenti» della Noce, di Brancaccio, di Santa Maria di Gesù e Belmonte Mezzagno e San Lorenzo, che avrebbero dato l’ok per l’apertura di centri scommesse nei loro territori. Le operazioni economiche sarebbero state pianificate nel corso di summit a cui avrebbero partecipato anche i massimi vertici del mandamento di Pagliarelli. Negli anni, grazie alla loro abilità imprenditoriale e ai vantaggi derivanti dalla «vicinanza» alla mafia, gli indagati avrebbero acquisito la disponibilità di un numero sempre maggiore di licenze e concessioni per l’esercizio della raccolta delle scommesse, fino alla creazione di un impero economico costituito da imprese, formalmente intestate a prestanome compiacenti come Girolamo Di Marzo, che nel tempo sono arrivate a gestire volumi di gioco per circa 100 milioni di euro.

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