Grasso: «Il metodo Falcone è valido, basta seguirlo. Mi indigna l’isolamento di Fiammetta»
Continua il viaggio del nostro editorialista Costantino Visconti, direttore del dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Palermo, attraverso i temi variegati della giustizia italiana. Dopo i dialoghi con Stefano Musolino (21 settembre 2021), Giuseppe Pignatone (24 ottobre 2021), Marta Cartabia (21 dicembre 2021), Fiammetta Borsellino (17 Febbraio 2022), Giuseppe Di Lello (6 Marzo 2022), Marcelle Padovani (18 maggio 2022), è la volta di Piero Grasso, già giudice a latere del maxi processo di Palermo, procuratore di Palermo, procuratore nazionale antimafia, presidente del Senato e oggi senatore. (Testo elaborato da Andrea Merlo) Costantino Visconti Dall’esperienza del maxi-processo come giudice a latere alla indagine per la cattura di Provenzano nel ruolo di procuratore di Palermo e poi Procuratore nazionale antimafia, le tappe che hanno scandito la vita professionale di Piero Grasso coincidono con alcuni passaggi cruciali della storia di questo paese e della lotta alla mafia in particolare. Ma entriamo subito nel vivo: siamo alla vigilia del trentesimo anniversario della strage di Capaci. Ci racconta il «suo» Falcone? Piero Grasso L’impresa non è semplice. Certamente Falcone è stata una delle persone che hanno più profondamente inciso sulla mia vita. Quando lo conobbi erano i primi anni che lavoravo a Palermo dopo il mio trasferimento dalla pretura di Barrafranca e lui, che veniva invece dall’esperienza presso il Tribunale di Trapani, aveva già fama di magistrato attento e scrupoloso. Un giorno trovai un fascicolo sulla mia scrivania con un suo appunto: riguardava il ritrovamento di un motorino bruciato. Un qualsiasi altro magistrato al posto suo avrebbe archiviato il caso, dati tutti i problemi da affrontare. Falcone no, non tralasciava nulla. Così, con mio stupore, portammo avanti quell’indagine con la massima attenzione, chiedendo una perizia al professore Giaccone, allora ordinario di medicina legale all’università di Palermo – purtroppo anche lui ucciso dalla mafia – che aveva sperimentato un sistema per risalire al numero di matricola sulle armi anche quando questa fosse stata abrasa. Così fece anche per il motorino. Per farla breve: Falcone risalì al proprietario, un ragazzo dal quale apprese che aveva avuto un diverbio con altri giovani, che prontamente Falcone rintracciò e fece confessare. Restai a bocca aperta: avevo capito di avere davanti un fuoriclasse. Un giudice così tenace non l’avevo mai visto. L’episodio può sembrare insignificante ma la dice lunga sullo scrupolo che dedicava al suo lavoro. Per me è stato un insegnamento. C.V. Da allora avete cominciato a lavorare insieme? P.G. No, non subito. La nostra diventò un’amicizia quando venni designato giudice a latere del maxiprocesso. Credo, anche se non ne posso avere la certezza, che ci sia proprio il suo zampino dietro la mia nomina. Ad ogni modo, dopo avere ricevuto l’incarico andai a trovarlo nella sua stanza. Appena entrai sul suo viso si disegnò un sorriso sornione e senza dire nulla mi accompagnò in una saletta comunicante interamente ricoperta sui quattro lati di fascicoli fino al soffitto. «Ti presento il maxiprocesso», aggiunse allora. Capii di essere sotto esame, e risposi con la stessa aria ironica: «Dov’è il primo volume?». Una mole di lavoro impressionante: quattrocentomila fogli. Mi buttai a capofitto in quell’impresa titanica, ma per fortuna mi venne in soccorso Borsellino che mi mise a disposizione i suoi appunti e mi consentì di orientarmi meglio in quel labirinto di carte. Poi durante il processo Falcone evitò di avere contatti assidui con me, anche per il rispetto sacrale che aveva dei ruoli istituzionali. Piuttosto erano le nostre mogli a essere in contatto: conservo un bel ricordo di Francesca, che durante i trentacinque giorni della camera di consiglio fu molto presente con mia moglie facendole sentire tutta la sua vicinanza con telefonate quotidiane. C.V. Poi lei ha condiviso con Falcone l’esperienza romana per la quale lui ha ricevuto critiche acerrime da parte dei suoi colleghi, dai movimenti antimafia e dalla sinistra di allora. P.G. Finito il maxiprocesso mi proposero di fare il consulente fuori ruolo della Commissione parlamentare antimafia. La proposta mi arrivò mentre ero a Roma a cena proprio con Falcone: io avevo resistenze perché temevo potesse essere inopportuno assumere ruoli connessi alla politica. Fu lui a farmi cambiare idea, convincendomi che era un bene mettere la mia esperienza a disposizione della commissione. Qualche tempo dopo accadde che fu lui ad accettare la sollecitazione di Martelli a dirigere gli Affari penali del ministero della giustizia e mi chiese di lavorare con lui al Ministero. Quello è stato il periodo di maggiore vicinanza fra noi due, non solo professionale. Falcone era infaticabile e credeva molto nel lavoro di squadra, in quel periodo vennero ideate la Procura nazionale e la Direzione investigativa antimafia. Peraltro a Roma lui sentiva meno il problema della sicurezza e si sentiva più libero, così spesso rinunciavamo alle scorte e cenavamo insieme nei ristoranti intorno a via Arenula. C.V. Come lo sintetizzerebbe oggi il famoso metodo Falcone? P.G. È un metodo che sarà sempre valido, perché mette insieme la visione strategica, la capacità di analisi, la solidità delle prove, l’accuratezza nel seguire le tracce del denaro, la tenacia nel lavoro, la comprensione del contesto, la lettura delle cause e delle conseguenze dei singoli reati per cercare il disegno complessivo. Tutti gli investigatori e i magistrati dovrebbero avere questi principi come regola quotidiana. C.V. E allora cos’è successo nel frattempo alla magistratura? Siamo all’indomani di uno sciopero contro la riforma del sistema elettorale del Csm e dell’ordinamento giudiziario, a giugno pendono i referendum non graditi alle toghe e la magistratura accusa un calo di fiducia tra i cittadini senza precedenti. E forse non sempre tra i magistrati si ricorda con la dovuta accuratezza che Falcone dal Csm non ebbe mai il sostegno che si aspettava, dalla mancata nomina a capo dell’ufficio istruzione dopo Caponnetto alla mancata elezione in qualità di membro togato a opera dei suoi stessi colleghi. P.G. I magistrati sono oggi ottomila: quelli che eccedono i limiti per manie di protagonismo sono davvero pochi, gli altri lavorano in silenzio e con grande professionalità. Comunque va detto che l’eredità di Falcone non consiste solo nell’esempio eccezionale di professionalità. Lui contribuì anche a far nascere importantissimi strumenti normativi fondamentali nel contrasto alle mafie, dalla legge sui pentiti all’ergastolo ostativo al 41 bis. Della Direzione nazionale antimafia ho già detto, ma ce le ricordiamo tutti le difficoltà che dovette affrontare, dalla lettera dei colleghi, anche amici, contrari ad uno sciopero praticamente contro di lui. Ma sapeva che era quella la via da percorrere: «Vedrai che alla fine la ragione prevarrà» mi diceva. Rimase sempre fedele al suo ruolo di magistrato e di uomo delle istituzioni. C.V. Lei invece in politica ha finito per impegnarsi direttamente. P.G. Si, per anni ho declinato ogni invito finché non ho accettato la proposta di entrare in Parlamento nel 2013, ma tengo a sottolineare che, dopo aver servito la magistratura per oltre quarant’anni, prima di candidarmi ho fatto domanda di pensionamento. C.V. Ancora di recente Fiammetta Borsellino non manca di rimarcare l’ignominia dei depistaggi perpetrati da uomini dello stato per allontanarci dalla verità sulla strage che gli portò via il padre Paolo e la responsabilità collettiva della magistratura per non aver sostenuto con coerenza e trasparenza le indagini. È una ferita aperta e io come semplice cittadino ne avverto il peso. Lei come ex magistrato e ora nelle vesti di uomo politico sente questa responsabilità? P.G. Ho incontrato Fiammetta a Terrasini un paio di settimane fa. Voglio ribadire che il suo isolamento, che è percepibile, mi indigna e mi preoccupa. Le sue parole vanno ascoltate, anche quando fanno male. Da parte mia posso dire di aver dato la spallata definitiva al depistaggio convincendo Spatuzza a collaborare e a svelare quanto già a molti era evidente sulle falsità di Scarantino. Nelle vesti di procuratore nazionale antimafia ho fatto di tutto per sollecitare e coordinare le indagini delle procure competenti. Sul periodo stragista degli anni novanta ci sono cose ancora da chiarire. Ad esempio, è provato che già nel febbraio di quell’anno per eliminare Falcone era stato organizzato un attentato a Roma. C’era già un commando pronto ad entrare in azione, composto anche da Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano. L’idea era quella di colpirlo fuori dalla Sicilia per spostare l’attenzione altrove, utilizzando la sigla «Falange armata«. Un modo per far passare l’idea che potesse non essere stata la mafia e così evitare reazioni repressive forti. Era la linea di Provenzano e Piddu Madonia, il capomafia di Caltanissetta. Poi, all’improvviso, cambiarono strategia. Fu Riina a deciderlo. Alcuni collaboratori rivelano che disse di aver «trovato di meglio» dopo aver «consultato persone importanti». Chi ha ispirato quel cambio di strategia? Chi ci ha guadagnato? Di certo non Cosa nostra. C.V. Non è forse il momento di cominciare a pensare a una Commissione parlamentare d’inchiesta ad hoc? Se trent’anni di indagini e processi hanno lasciato tanti interrogativi senza risposta non è ragionevole desumere che occorre una visione ricostruttiva non meramente giudiziaria di quegli eventi? P.G. Nel 2013 da presidente del Senato chiesi che venne istituita, ma i partiti non vollero. Ora c’è un comitato che però si sta occupando solo di un pezzetto del puzzle. Sono convinto che il Paese meriti tutta la verità, almeno a livello storico se non sarà possibile a livello giudiziario. C.V. Chiudiamo come sempre la nostra conversazione con un consiglio letterario. Ne vuole dare uno ai nostri lettori? P.G. Quando mi chiedono un consiglio letterario non ho dubbi, indico sempre due libri: «Cose di cosa nostra«, di Falcone e Padovani, e «Storia di Giovanni Falcone» di Francesco La Licata.