Palermo

Giovedì 06 Febbraio 2025

Una cronaca lunga un secolo

La cronaca che si fa storia dura nei secoli. E oggi cade il primo secolo di un gigante dell’informazione, Mario Francese. Il nostro Mario. Nessuna retorica particolare: non diremo che il nostro collega, cronista di giudiziaria del Giornale di Sicilia, ucciso da Cosa nostra il 26 gennaio del 1979, era un eroe, civile, borghese o «professionale». Era un giornalista come tanti altri, innamorato del suo mestiere, del suo taccuino, della sua penna, delle scarpe che lo portavano in giro a cercare, approfondire, studiare; amava conoscere, scoprire, entrare nel cuore dei problemi, scavare fino a inquadrare una notizia, per raccontarne tutto il resto. Aveva una gigantesca capacità di lavoro, di verifica, riscontro e sintesi e le sue analisi ancor oggi stanno in piedi, poggiano su solide basi del passato ma tengono benissimo anche nel presente. E sono proiettate verso il futuro. Per questa ragione Mario Francese era un gigante dell’informazione e rimane tale, nel primo centenario della nascita e quando è sempre più vicino il cinquantesimo della morte. Perché quando fu ucciso sotto casa, in viale Campania, da Leoluca Bagarella, il nostro cronista giudiziario non aveva nemmeno compiuto 54 anni. Era dunque ancora giovane e lasciò la vedova e quattro figli, uno dei quali - Giuseppe, il più piccolo - aveva solo 12 anni e quella sera di venerdì 26 gennaio 1979 aveva pure la febbre alta. Quei colpi di pistola che si sentirono esplodere in strada lui li interiorizzò in maniera diversa dal resto dei familiari, divennero un peso insostenibile nella sua vita, sentì da quella sera la necessità assoluta di fare qualcosa per il papà a cui non aveva potuto dare alcun aiuto. Si intestò la battaglia per dare una risposta giudiziaria alla fine di un cronista di giudiziaria - il padre, Mario Francese - che, per quanto possa apparire paradossale, dopo avere personalmente aiutato tante vittime ad avere giustizia, da morto e da vittima si era ritrovato a sua volta senza alcuna giustizia. Anche Giuseppe fu, a suo modo, un gigante dell’informazione, battendosi come un leone per rimettere insieme i pezzi di un delitto imperfetto, usato per zittire un giornalista scomodo e per tentare di intimidire gli altri. I risultati furono raggiunti, gli assassini condannati, anche Mario ebbe la giustizia che gli era dovuta e Giuseppe ritenne esaurito il suo compito, la missione che un bambino di 12 anni si era segretamente intestata la sera in cui il papà fu brutalmente assassinato in viale Campania. La cronaca, con Mario Francese - e Giuseppe - si fa storia perché è imperitura, al di là della fin troppo facile retorica, la ricostruzione di un mondo «in diretta», l’arrivo dei corleonesi che iniziavano a prendere piede prima nelle campagne e poi puntavano verso la città, attraverso quel meccanismo di appalti e affari per cifre esorbitanti che andava sotto il nome di Diga Garcia. Una diga che dal giugno 2013 porta il nome proprio di Mario Francese, in un contesto altamente simbolico in cui un cronista, ancora una volta trasformando la cronaca in storia, rappresenta una diga, un argine, un qualcosa che è chiamato a resistere nei secoli. E nel celebrare il primo secolo di Mario occorre anche dare il giusto peso al rapporto di immedesimazione fra il cronista e il suo giornale, questo giornale. I giudici della corte d’assise di Palermo, nella prima delle sentenze che hanno condannato gli assassini di Francese, danno atto del «disegno coltivato da alcuni esponenti di primario rilievo di Cosa nostra» e accompagnato dalla «aspettativa che Mario Francese venisse indotto a desistere dal pubblicare articoli giornalistici su vicende che riguardavano l’organizzazione mafiosa. Queste attese - si legge nella decisione del 13 dicembre 2002 - non trovarono però rispondenza nella linea seguita dagli azionisti e dalla direzione del Giornale di Sicilia». Sulle colonne di questo giornale Mario Francese scriveva i suoi articoli sulla mafia, dai titoli - non fatti solo da lui - assolutamente netti ed espliciti, senza ma e senza se nel denunciare la pervicacia e la virulenza del fenomeno mafioso, della vecchia e disonorata Cosa nostra ma anche della nuova organizzazione a guida Riina e Provenzano. Ne dà ancora atto il collegio all’epoca presieduto da Vincenzo Oliveri, a latere Gianfranco Garofalo: «Il Giornale di Sicilia mantenne una linea di rigore e di libertà intellettuale sui temi della lotta alla mafia, sotto la direzione di Lino Rizzi prima e di Fausto De Luca poi». Cosa che indusse i boss a «una serie di condotte delittuose, in progressione di tempo sempre più gravi, volte prima a intimidire il direttore e il capocronista e poi a fare tacere per sempre il giornalista che più di ogni altro era in grado di far conoscere all’opinione pubblica l’organigramma, le vicende interne, le relazioni esterne e le nuove strategie dell’organizzazione criminale». Quel lavoro non si è mai fermato, ha continuato a camminare sulle gambe di altri cronisti, a scorrere su altri taccuini, è diventato una cronaca lunga un secolo. Ed è solo il primo secolo.    

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