«Cu dici ca lu carciri è galera/ a mia mi pari na’ villeggiatura», recita un noto brano popolare. Che, se oggi suona come offesa al disumano sovraffollamento dei penitenziari e all’infelice condizione dei reclusi, un tempo, nemmeno troppo lontano, ben s’intonava a ciò che accadeva all’Ucciardone di Palermo, dove i boss di Cosa nostra, indisturbati e riveriti come in un hotel, dettavano legge e commissionavano i più spietati delitti.
Lo sapeva bene il maresciallo degli agenti di custodia Calogero Di Bona che si oppose allo strapotere dei mafiosi all’Ucciardone e che per tale motivo perse la vita giovanissimo il 28 agosto del 1979, un giorno prima del suo trentaseiesimo compleanno.
Un delitto avvolto nel mistero per un lungo trentennio, il suo, di cui si era occupato Rocco Chinnici intuendone la pista mafiosa senza poterla percorrere come avrebbe voluto perché, come noto, fatto fuori nell’attentato di Cosa nostra del 29 luglio 1983.
Il 28 agosto 1979 Di Bona – entrato a fa parte degli agenti di custodia nel 1964 per poi conquistare i gradi di maresciallo ordinario – si trovava a Sferracavallo, dove qualche giorno dopo fu ritrovata la sua auto. La moglie disse agli inquirenti di averlo visto uscire per prendere un caffè dopo averla accompagnato con i figli dai nonni. Allora si parlò di uno dei tanti delitti di lupara bianca e qualcuno insinuò che si trattasse di un regolamento di conti. Il caso, dopo decenni di silenzio, è stato riaperto grazie ai figli che si sono battuti per riattivare le indagini della Procura. Da qui la ricostruzione dell’efferato delitto sancita dalla pronuncia della prima sezione della Corte d’Assise di Palermo del 18 luglio 2014 e confermata dalla Corte d’Assise di Appello di Palermo del 12 novembre 2015 col sigillo, il 20 aprile 2017, della Cassazione. Come acclarato dagli atti giudiziari che hanno confermato le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, Di Bona fu sequestrato e ucciso nel giardino di una casa colonica nel quartiere Cardillo, sottoposto a tortura affinché rivelasse i nomi degli agenti di custodia colpevoli di avere inviato una lettera anonima ai giornali che denunciava gli anomali privilegi dell’Ucciardone, e barbaramente strangolato e carbonizzato in un forno. Le diverse sentenze hanno decretato l’ergastolo per Salvatore Lo Piccolo e Salvatore Liga, proprietario del forno dove venivano bruciati i cadaveri, ritenuti responsabili del delitto eseguito su mandato di Saro Riccobono.
Tanti i riconoscimenti per il maresciallo inviso alla mafia: tra gli altri, il 19 settembre 2017 la medaglia d’oro al Merito civile alla memoria nella cui motivazione tra l’altro si legge: «Nobile esempio di uno straordinario senso del dovere e di elevate virtù civiche, spinte fino all’estremo sacrificio», e dall’8 gennaio 2018 l’intitolazione al suo nome dell’Ucciardone, oggi «Casa di reclusione Calogero Di Bona». Un «estremo sacrificio», il suo, come quello di tantissimi altri – alcuni più noti, altri meno - in quegli anni macchiati di sangue che ha contribuito a far maturare, seppure con graduale lentezza, una mentalità antimafiosa oggi comune alla maggioranza dei siciliani. Che riconoscono nella foto che l’ha immortalato e reso eternamente giovane il candore degli onesti. Un ineffabile candore che fa tornare in mente i versi di una nota canzone di Francesco Guccini: «Gli eroi son tutti giovani e belli».
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