PALERMO. Quando si mangia una focaccia «ca meusa», si fa un gesto inconsapevole: ci si piega in avanti per impedire che qualche goccia di «saime» vi cada sulla cravatta o sulla camicia. Ma a uno che non sa e vi sta guardando quel gesto potrebbe anche sembrare un inchino: di rispetto, di devozione, di memoria onorata. E quale scenario migliore se non quello dell’Antica Focacceria San Francesco, nell’omonima piazza, di fronte all’omonima Basilica in uno dei punti più belli del centro storico di Palermo? Un rito quotidiano, nobile e plebeo, locale e internazionale. Un rito che domani, nel corso di una festa in piena regola, celebrerà un anniversario importante: la Focacceria è lì dal 1834. Sono 180 anni, spalmati su tre Secoli. Tante dominazioni in Sicilia sono durate molto meno. Questa è una Terra dove non si getta via mai nulla. La milza, il polmone, lo «scannarozzato»: frattaglie. Eppure erano un salario. Sissignore. Era la paga degli scannatori ebrei che venivano impiegati nei macelli per la loro abilità e retribuiti in natura con le parti meno nobili della bestia. E ne fecero una cultura che ci portiamo addosso da secoli. E i «monsù», i cuochi delle stirpi nobiliari, riuscirono a imbandire con quei cibi poveri anche le tavolate crapulone frequentate dai vertici del Potere, della Cultura e della Mondanità. E fu proprio un «monsù», Antonino Alaimo, cuoco di casa dei principi di Cattolica, ad avviare l’attività del locale mettendo a frutto una singolare «liquidazione». Al termine della sua carriera al comando delle cucine dei principi, ricevette infatti i locali dove diede vita alla Focacceria che da allora non ha mai conosciuto altro che fama, apprezzamento, riconoscimenti. ALTRE NOTIZIE A PAGINA 26 DEL GIORNALE DI SICILIA IN EDICOLA