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Le rapine e poi la denuncia: «Salviamoci dai mafiosi dicendogli in faccia: io non pago il pizzo»

E dunque arrivi a un punto in cui finalmente ti chiedi se tenerti tutto dentro oppure no. Se sia giusto continuare a inghiottire il fiele che ti riserva spesso questo lavoro, il lavoro dell' imprenditore in una città disgraziata come Palermo, o condividere le tue ansie e le tue angosce. Dire pubblicamente come vanno le cose. Come stai, come ti senti. Rendere pubblico il malessere di dover convivere ogni giorno, dal momento in cui lasci casa tua e varchi la soglia del bar indossando la migliore delle tue maschere, coi finti sorrisi, le mezze frasi, il detto e non detto, le strette di mano, il caffè sorseggiato con gente che in condizioni normali, grazie a quel pizzico di snobismo che a volte ti salva la vita, non saluteresti nemmeno.

E capisci che sì, quel momento è arrivato. Perché ciò che può salvarti, contro la mafia, contro i mafiosi, è proprio la condivisione pubblica, intesa come circolazione di notizie. È questo ciò che può salvarmi. L'ho pensato quando ho deciso di rendere pubblico quel che fino a due giorni fa conoscevano solo gli amici. Adesso lo sapete tutti. Le rapine che continuano sistematiche, periodiche, puntuali, non mi indurranno acercare il capetto mafioso del quartiere per chiedergli una tregua, per siglare un patto di non aggressione. Non compro la mia tranquillità.

Ho deciso di conquistarla senza pagare il pizzo. E se non dovessi conquistarla me ne farò una ragione. Oppure no. So bene che pagare, trovare un punto di incontro, sarebbe la soluzione più facile, più logica - passatemi il termine -, più sbrigativa. Fatti «furbo», mi dice qualcuno. Io ascolto tutti, ma non posso permettermi di essere «furbo» fino a quel punto. Per il rispetto che devo a me stesso. A quello che sono, al mio vecchio mestiere di cronista di nera che ha raccontato per vent' anni il marcio dique sta città sperando che il male vissuto avesse almeno un senso. A quello che sarò.

In passato sono stato tentato di cedere alla malefica tentazione, non sono tanto ipocrita da nascondervelo e d'altronde non siete così ingenui da non supporlo da soli. Però adesso no. Adesso so che la strada da percorrere è quella dell'intransigenza, del rifiuto assoluto. Non sono una verginella, non punto il dito contro gli imprenditori che il pizzo lo pagano. So che è difficile sottrarsi.

So che ci vuole coraggio, so che non è facile darselo. Non condanno nessuno. Non faccio la morale. Non voglio dare messaggi. Non salgo in cattedra e non voglio che nessuno mi ci metta.
Ho seguito l'istinto. La mia stanchezza, forse. Il messaggio che ho voluto dare è soprattutto a me stesso. Alla mia famiglia. Alle trenta famiglie che grazie al bar vanno avanti. Ho dei doveri. E certo non li ho verso i mafiosi che pretendono il denaro della mia azienda.

Conosco le regole del gioco. Ma io non gioco. Non partecipo. Mi tiro fuori. Ho deciso così. Mi guardano. Mi chiedono senza chiedermelo, coi gesti, con gli occhi, coi sospiri, se ne valga la pena. È faticoso, sì. È faticoso anche scrivere queste righe, io che sono abituato a scrivere. E mi piace. Però alla fine credo che ne valga la pena. Vale la pena allontanare gli avvoltoi, tenerli alla larga, farglielo capire. Coi fatti.
Con le parole. Questo non è posto per voi, prego bussare da qualcun altro. Esiste, nella vita, una linea di demarcazione che divide le persone perbene dalle altre. Io credo che per troppo tempo abbiamo perso di vista quella linea, lasciando che il nostro territorio fosse frequentato da gente con cui non avevamo nulla da condividere. È arrivato il momento di ridefinire quella linea. Io sto qua.
Tu stai da quell'altra parte. E non entri. Nemmeno per bere un caffè insieme.
Mi piace pensare che questa non è più la Palermo dei nostri padri e dei nostri nonni. Della connivenza per quieto vivere, del patto, dell' ammiccamento, della mano che lava l' altra. So che non è così. Che la Palermo che vogliamo, che molti di noi vogliono, non è questa, non è qui, non è adesso. È una Palermo da costruire. Un pezzo alla volta, ognuno con quello che può. Io oggi posso fare questo. Posso dire no. Fuori dalla retorica dell' eroismo, di certa antimafia di facciata e di cartone, fuori dagli hashtag #iostocon, fuori dal circo che rischia di trasformare in fuffa da social scelte consapevoli, serie e difficili.
Metto le mani avanti, e perdonatemi.

Non voglio sit-in. Non voglio abbuffate di arancine eque e solidali, non voglio ciò che non amo e non ho mai amato, il baraccone, la solidarietà politica e istituzionale, l'automatismo della vicinanza che finisce per rendere tutto maledettamente falso, che rischia di disperdere il modesto obiettivo di una denuncia pubblica, e in qualche modo sofferta, come la mia.
Mi chiedono se ho paura. Questo mi chiedono, mi chiedete. No, non ho paura. Sono infastidito, semmai.
Perché vorrei potermi dedicare al mio lavoro, un lavoro complicato già di per sé, senza la scocciatura delle telefonate che arrivano nel mezzo della cena, «ciao Francesco, sono venuti di nuovo, erano in tre, avevano la calzamaglia e le pistole, vedi di chiamare Rita perché piange».
Rita è la banconista che ha subìto l' ultima rapina, in gelateria, mercoledì sera. E va bene, io Rita la chiamo e la consolo, le chiedo se è tutto a posto e il giorno dopo resto a parlare cinque minuti con lei e mentre parlo mi guardo, cioè guardo me stesso come se potessi magicamente uscire dal mio corpo, e penso: sì, va bene, ma a me chi mi consola?
Però, e lo dico con la sorpresa che le cose belle ti sanno regalare, la solidarietà che ieri m'è arrivata sotto forma di messaggi e telefonate, attraverso questa cosa terribile e meravigliosa che si chiama Facebook, mi ha regalato la consapevolezza che la strada, quella strada di cui parlavo prima, è quella giusta. Se volete i miei soldi dovrete continuare a prenderveli come sapete. Entrando al bar con le vostre impresentabili facce coperte dalle calzamaglie. Lasciando messaggi che io non coglierò. Non tratto. Non faccio compromessi, non apro la porta a trattative di alcun genere.

Gli anni insegnano a tutti a sostituire il bianco e il nero con le sfumature. Anch'io non mi sottraggo alla regola e guardandomi indietro ogni tanto mi rendo conto, non foss'altro che per una questione di sopravvivenza, di avere smussato gli angoli più di quanto non sia disposto ad ammettere a me stesso. Ma coi mafiosi le sfumature non le colgo, non le vedo. Non più. Indietro non si torna. Io indietro non ci torno. Mi piace pensare di non essere il solo, ma non sono così ingenuo da credere alle favole. Però oggi mi piace pensarlo, e questo mi basta.

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