Souvenir di mafia, la Regione blocca le vendite negli aeroporti: «Lo facciamo da tempo», rispondono da Palermo e Catania
Prima l’ordinanza del sindaco di Agrigento, Francesco Miccichè, poi l’adesione allo stesso provvedimento da parte di diverse fasce tricolore siciliane, sebbene per adesso solo teorica e morale, e infine, nella giornata di ieri e sullo stesso solco, la lettera inviata dall’assessore regionale alle Infrastrutture, Alessandro Aricò, ai vertici delle società di gestione degli aeroscali di Palermo (Gesap), Catania e Comiso (Sac), Trapani (Airgest), Lampedusa (Ast) e Pantelleria (Enac), con una richiesta chiarissima: «Si fermi la vendita di gadget e souvenir a tema mafia negli shop e spazi commerciali degli aeroporti dell’Isola». Nella nota, che non ha carattere di ordine o direttiva, Aricò rimarca inoltre che «mantenere una immagine dignitosa e scevra dai soliti stereotipi negativi è senza dubbio una linea ferma da tenere nei luoghi di primo approdo di turisti e visitatori che raggiungono la Sicilia, come appunto gli aeroporti». Già un anno fa l’assessore aveva rivolto lo stesso invito agli armatori perché fossero rimossi i gadget e i souvenir a tema mafioso dagli spazi commerciali dei traghetti e delle navi che curano i collegamenti con le isole siciliane. Un appello, aggiunge il responsabile dei Trasporti, «che fu subito accolto. Sono certo che lo stesso avverrà anche negli aeroscali», perché «questi oggetti incatenano la nostra regione a stereotipi mortificanti, richiamando un fenomeno criminale dal quale la Sicilia si sta sforzando di liberarsi grazie al sacrificio di eroi civili e all’impegno quotidiano della stragrande maggioranza dei cittadini. Dobbiamo invece fare il massimo sforzo per diffondere la vera immagine di una terra ospitale e laboriosa». Pronta la replica dei destinatari della missiva, a cominciare dalla Gesap, la società di gestione dell’aeroporto internazionale Falcone Borsellino di Palermo: «Fa bene l’assessore a chiedere di bloccare la vendita di souvenir a tema mafia, ma già da molto Gesap l’ha vietata. Circa dieci anni fa abbiamo fatto ritirare dagli scaffali dei negozi della galleria commerciale qualsiasi forma di prodotto che evocasse Cosa Nostra e scritto a tutti i sub-concessionari per ricordare il divieto di commercializzazione di questi gadget». Sulla stessa linea la Sac, la società che gestisce il Fontanarossa di Catania e lo scalo di Comiso, il cui amministratore delegato, Nico Torrisi, avallando l’iniziativa di Aricò, sottolinea al contempo che «oggetti di questo tipo nell’aeroporto di Catania non se ne vedono da tempo, da quando abbiamo sensibilizzato rivendite e fornitori a non metterli più sul mercato all’interno della struttura». Dal canto suo, e dallo scalo di Birgi, il presidente di Airgest, Salvatore Ombra, sottolinea che «sulla mafia non c’è niente da ridere» e che, «come è giusto stigmatizzare tutti gli atteggiamenti e comportamenti mafiosi, è altresì corretto non promuovere la diffusione di prodotti che ad essi si ispirano. Pertanto, accogliamo la lodevole iniziativa dell’assessore e ci faremo parte diligente affinché i nostri sub-concessionari non vendano all’interno del Vincenzo Florio souvenir ispirati o che richiamino la criminalità organizzata». Intanto, mentre Coldiretti Sicilia ricorda di avere promosso già due anni fa una campagna contro i «mafia gadget» anche per i ristoranti e i nomi di prodotti agroalimentari, pure il sindaco di Mazara del Vallo, Salvatore Quinci, si dice pronto ad emulare l’ordinanza dell’omologo agrigentino Micciché, che ne ha vietato la vendita nella Città dei Templi: «Ne parlerò in giunta lunedì prossimo, perché l’idea mi piace, per tenere alta la guardia contro la “cultura” mafiosa, a maggior ragione oggi, dopo che la Mazara è finita sulla ribalta della cronaca per aver ospitato uno dei covi del boss Messina Denaro durante la sua latitanza. Ma insieme al divieto di vendita di questi prodotti bisognerebbe al contempo avviare una serie di iniziative nelle scuole e nelle piazze, incontrando i protagonisti dell’antimafia, altrimenti la proibizione rischia di diventare uno spot».