Intitolata al magistrato Rosario Livatino, il giudice beato ucciso dalla mafia, l’aula 7 presso il Dipartimento di Scienze politiche e delle Relazioni internazionali dell’Università degli Studi di Palermo. «Non un semplice esercizio di memoria - afferma il sindaco Roberto Lagalla - ma rielaborazione attiva di pensiero che ostacola ogni tipo di rischio criminogeno. Credo che l’Università di Palermo così come la città abbiano sempre doverosamente fatto e continuino a fare ciò che è necessario per costruire sviluppo sulla base di salde e vincolanti radici di ordine etico, afferenti alla legalità, alla trasparenza e alla interdizione di ogni infiltrazione da parte della malavita organizzata». «Alla grande professionalità di Rosario Livatino che faceva sì che i suoi provvedimenti da giudice arrivassero in Cassazione senza essere minimamente scalfiti, e quelli da pubblico ministero trovassero il pieno consenso dei giudicanti, si accompagnava un rispetto per le garanzie difensive e un rispetto per l’imputato come persona, anche se era il peggiore mafioso. Da questo punto di vista è un uomo del nostro tempo nel senso che ha tanto da dire ai giuristi e, in particolare, ai magistrati oggi», ha detto il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano. «Per Livatino il giudice parla con i suoi provvedimenti e al di fuori non ha altro da dire. In 12 anni di attività non ha mai rilasciato un’intervista, mai presenziato in un programma televisivo, non si è mai lasciato sfuggire una indiscrezione o anticipazione dei casi di cui si occupava. Insieme con la qualità insita in ogni singola decisione, è impressionante la quantità di lavoro che ha svolto anche in considerazione del periodo in cui si trovava», continua. «Noi siamo abituati a dare tutto per scontato - ha proseguito - e ritenere che gli strumenti normativi di oggi ci fossero anche 40 anni fa, ma le indagini che Livatino ha svolto prima su Cosa nostra agrigentina, costruendo l’impalcatura del primo processo alla mafia in quella provincia, sono indagini al cui interno non c'è il contributo di alcun collaboratore di giustizia. Allora non c'era il 41 bis e non c'erano le tecnologie di cui si può usufruire adesso. L’organico del tribunale di Agrigento allora era ridottissimo: solo 11 posti di cui 5 scoperti. Ma nonostante questo il suo lavoro è stato efficace e di qualità e nel pieno rispetto dei termini. Perchè per Livatino essere magistrato non era un lavoro qualsiasi, per lui fare il magistrato coincideva con l’essere magistrato». Mantovano infine ha ricordato come «in giro per l’Italia ci sia ancora la camicia intrisa del sangue che Livatino indossava quando è stato ucciso. E’ importate perchè testimonia quale sia il costo della giustizia e come al suo esercizio si debba guardare come qualcosa di sacro. Nella sua vita Livatino ha fatto questo ed è per questo che non soltanto lo ricordiamo come magistrato esemplare - ha concluso - ma lo veneriamo come beato».