De Lucia: «Bonificare le aziende contaminate dai clan e cercare la verità sui troppi misteri»
Il viaggio del nostro editorialista Costantino Visconti fra i molteplici temi della giustizia italiana continua con questa conversazione con Maurizio De Lucia, che dallo scorso 15 ottobre è il nuovo capo della Procura di Palermo. Di origini campane, 61 anni, è entrato in magistratura nel 1990. Nel 1998 fu chiamato in Dda dall'allora procuratore di Palermo Giancarlo Caselli. Proviene dalla Procura di Messina. Testo raccolto da Andrea Merlo. Sono da poco passate le 17 e il Palazzo di giustizia di Palermo è quasi deserto. Maurizio De Lucia ci accoglie nella sua nuova stanza che guarda la piazza Vittorio Emanuele Orlando. Lavora lì ormai da un mese ma ancora non ha finito di trasferire le sue cose da Messina. «Non ho avuto tempo», spiega. «Il lavoro è davvero tanto e gli uffici sono ridotti all’osso. Consideri che solo in Procura mancano quindici magistrati. In totale siamo quarantacinque e dovremmo essere in sessantanove. Un terzo in meno». C.V. Procuratore, domani (oggi, ndr) il Presidente della Repubblica sarà a Palermo per l’intitolazione dell’aula bunker a Falcone e Borsellino. Io comincerei da qui. M.D.L. È un importante omaggio a due grandissimi magistrati, a due palermitani, che con il loro lavoro e con il loro martirio hanno cambiato per sempre la storia del contrasto a Cosa nostra. Poi devo dire che questo Capo dello Stato è particolarmente caro alla magistratura, sia per la sapienza istituzionale che lo contraddistingue, sia per la sua storia personale. Anche quando è intervenuto con parole dure nei confronti di noi magistrati, io ne ho condiviso totalmente il pensiero. Dal suo magistero discende un insegnamento per me prezioso: nelle istituzioni si sta da “ospiti”, non come se si fosse a casa propria. Mi farebbe piacere che tutti, a partire da noi magistrati, tenessimo a mente questo insegnamento, soprattutto quando ricopriamo ruoli di responsabilità. C.V. Nel suo discorso di insediamento si è espresso in termini non rituali sui temi giudiziari più scottanti, a cominciare dalla questione del contrasto a Cosa nostra. M.D.L. Anzitutto ribadisco che la lotta alla mafia resta una priorità. Bisogna però intendersi su cosa questo comporti. Da un lato, la guida della procura di Palermo mi impone un preciso dovere verso i nostri caduti, quello della ricerca della verità, perché sono ancora tanti i fatti avvolti nel mistero. A questo dovere però se ne affianca un altro altrettanto importante, direi decisivo: guardare al presente e al futuro. Cosa nostra non è più quella delle stragi e noi dobbiamo essere attrezzati a leggere i cambiamenti in corso. C.V. Si tratta di cambiamenti nel quadro di un irreversibile indebolimento? M.D.L. Il dato di partenza è che la mafia è ancora presente e continua a condizionare l’economia e le dinamiche sociali di questa città. Certo, Cosa nostra è certamente molto impoverita. Questo è un grande merito della magistratura e delle forze di polizia, specialmente sul fronte del contrasto all’accumulo della ricchezza illecita. Al netto delle note disavventure che hanno riguardato i nostri uffici giudiziari, bisogna dire che gli strumenti di prevenzione patrimoniale hanno funzionato e restano insostituibili, come peraltro testimoniato da recentissime iniziative del nostro ufficio che puntano non solo alla confisca dei patrimoni, ma anche alla bonifica delle aziende contaminate da interessi mafiosi, in un’ottica di supporto al sistema delle imprese. C.V. Sono convinto anche io che questi strumenti di “bonifica” aziendale vadano valorizzati il più possibile, perché salvaguardano le nostre aziende e lanciano un ponte collaborativo tra Stato e imprenditori. Più in generale, credo che quello di rivendicare i successi ottenuti è un dovere che abbiamo prima di tutto nei confronti delle nuove generazioni. M.D.L. Pienamente d’accordo. Per non disperdere questi risultati bisogna ora evitare che la mafia torni ad arricchirsi. Sotto questo profilo dobbiamo essere prontissimi nella repressione del traffico di stupefacenti che – oltre a costituire un problema di ordine pubblico – continua a rappresentare uno dei cespiti di arricchimento più rilevanti delle organizzazioni criminali. Non esiste al mondo merce a maggior valore aggiunto della cocaina. L’accumulo di ricchezza parte da lì e noi dobbiamo impedirlo. C.V. Passiamo a un altro tema, molto urgente visto l’arrivo dei soldi pubblici del PNRR, ossia il controllo penale dell’azione della pubblica amministrazione. C’è chi ritiene che la magistratura sia troppo invadente e che questo produca effetti dannosi per il funzionamento dell’apparato burocratico. Per liberare funzionari e amministratori pubblici dall’incombente rischio di trovarsi coinvolti in indagini penali, il ministro della giustizia Carlo Nordio propone di abolire il reato di abuso d’ufficio. Lei che ne pensa? M.D.L. Non mi piace commentare le proposte del governo. Mi limito a delle osservazioni di carattere generale. L’imputazione per abuso d’ufficio in rarissimi casi sfocia in una condanna, specie dopo la riforma del 2020 che ha ulteriormente ridimensionato il reato. D’altro canto, che si mantenga l’abuso d’ufficio o che lo si sostituisca con altre figure di reato anch'esse già esistenti, è la stessa Costituzione a chiederci di tutelare valori come l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione. E gli strumenti non mancano. C.V. Al di là delle condanne, però, non possiamo fare finta che già l’iscrizione nel registro degli indagati viene temuta dai burocrati per via degli effetti che produce a livello mediatico. M.D.L. Ma questo è un altro problema. A livello più generale – e il ragionamento riguarda più la stampa e l’opinione pubblica che la magistratura – dovrebbe compiersi un percorso culturale in modo da non anticipare il giudizio nella fase delle indagini e durante il dibattimento. C’è anche da dire che spesso le indagini della magistratura vengono strumentalizzate per ragioni di lotta politica. C.V. Però è anche vero che in Italia il problema della sovraesposizione della magistratura, in particolare quella dei pubblici ministeri, c’è e si fa sentire. M.D.L. Negare che in alcuni casi abbiamo assistito a forme patologiche di protagonismo da parte di alcuni pubblici ministeri sarebbe sciocco. Qualcuno ha perfino approfittato del ruolo ricoperto per inseguire un tornaconto personale, ma non bisogna generalizzare. La questione semmai riguarda il meccanismo mediatico che si attiva con l’avvio del processo penale. Ma questo è un problema generale che riguarda tutti gli attori pubblici. Serve misura. Molto spesso, poi, sono i pubblici ministeri quelli più esposti, per ragioni legate al contesto oggettivo in cui si muovono. Al di là dell’attenzione morbosa che certe volte suscitano alcuni fatti di cronaca, è la delicatezza delle materie oggetto di indagini che mette gli inquirenti in primo piano. Specialmente quando i fatti riguardano la corruzione o la mafia: la notorietà delle persone coinvolte fa sì che l’interesse suscitato dalle indagini trascenda la dimensione processuale per invadere la scena mediatica e politica. C.V. La magistratura occupa la scena spesso anche nel commentare i provvedimenti del legislatore. In questi giorni ad esempio non sono mancate le critiche al primo decreto del governo da parte di alcune correnti della magistratura. M.D.L. Non mi pare che si sia andati oltre il confine del dibattito culturale. C.V. Non sarebbe meglio che su certe questioni intervenisse solo l’Associazione nazionale magistrati? M.D.L. No. L’esistenza di un confronto è fisiologica e salutare. Di contro troverei inquietante se l’ANM esprimesse sempre una posizione unitaria… C.V. Però c’è anche il rischio che la proiezione mediatica del magistrato ne appanni in qualche modo l’imparzialità. E non dobbiamo dimenticare che è un dovere costituzionale per i magistrati non soltanto essere ma anche “apparire” imparziali agli occhi dei cittadini. M.D.L. Certamente. Vero è anche, però, che dovendo scegliere preferisco prese di posizione “trasparenti” rispetto a una silente neutralità, che magari nasconde forme di collateralismo della magistratura con altri poteri. Il mio ruolo mi impone di tenermi distante dalla polemica. Tuttavia mi sembrerebbe esagerato pretendere che i magistrati non partecipino al dibattito pubblico. Specialmente sui temi della giustizia, rispetto ai quali qualcosa da dire l’hanno, direi! C.V. A proposito, mi aspetto che lei sulla riforma dell’ergastolo ostativo varata in extremis dal governo qualcosa da dire ce l’abbia. M.D.L. È una questione molto complessa. Il governo – riprendendo un disegno di legge approvato da un ramo del Parlamento nella scorsa legislatura – ha scelto la linea rigorista. Giustamente la Consulta ha deciso adesso di rimettere gli atti alla Cassazione. Vedremo adesso se la nuova norma resisterà al collaudo applicativo o se sarà necessario ricorrere nuovamente alla Corte. C.V. Mi sembra di cogliere un certo scetticismo: ritiene forse che le nuove norme saranno nuovamente censurate dalla Consulta? M.D.L. Il mio personalissimo giudizio non ha importanza. Si è espressa la Corte costituzionale che – piaccia o no – è intervenuta fornendo indicazioni precise che devono essere rispettate. Se guardo alla mia esperienza dico che dalle organizzazioni mafiose si esce solo con la morte o con il pentimento, e purtroppo abbiamo costanti e attualissimi riscontri di questa massima d’esperienza. Non dico, però, che si debba rinunciare a valutare se anche in assenza di collaborazione il condannato abbia affrontato un suo personale percorso rieducativo e valorizzarlo in termini di benefici penitenziari. Se posso esprimere una mia preoccupazione, temo che i giudici di sorveglianza - a cui spetta tale valutazione - risultino in questo modo sovraccaricati e sovraesposti. C.V. Non posso non chiederle che pensa del rinvio dell’entrata in vigore della riforma Cartabia. M.D.L. Era inevitabile, un atto dovuto direi. Sia ben chiaro, nei contenuti è una riforma che condivido anche. Però aveva due limiti che hanno reso la scelta del rinvio pressoché obbligata. In primo luogo, non ha previsto nessuna disciplina transitoria per consentire alla riforma di entrare a regime gradualmente. Il secondo grande limite sta nell’art. 99 del decreto che prevede che la riforma debba trovare attuazione “con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Non si tiene conto che per mettere in pratica una riforma così ambiziosa serve lo stanziamento di risorse adeguate per riorganizzare gli uffici già in sofferenza. Non è affatto semplice. Così facendo, invece, la riforma rischia di tradire i suoi due principali obiettivi, di accelerare i tempi della giustizia e di aumentare le garanzie. Senza almeno qualche settimana in più per organizzare la transizione, saremmo andati incontro al caos. C.V. Mentre sui contenuti della riforma ? M.D.L. Guardo con grande interesse ai percorsi della giustizia riparativa, a quei percorsi cioè che puntano a sanare i conflitti prima ancora che a punire gli autori dei reati. Credo però che sia una idea che deve ancora essere interiorizzata dal mondo degli operatori del diritto. Inoltre credo che la riforma contenga indicazioni molto importanti con riferimento al modo in cui deve essere esercitata l’azione penale, prescrivendo il rinvio a giudizio solo quando si hanno ragionevoli probabilità di giungere ad un giudizio di condanna. Io per parte mia ho dato queste stesse indicazioni ai miei sostituti: indagare a tutto campo, ma puntare poi solo sui casi che possono fare ottenere dei risultati concreti. C.V. Com’è ormai consuetudine, chiudiamo con un consiglio letterario. M.D.L. Il resto di niente, di Enzo Striano.