Il viaggio dell'editorialista del Giornale di Sicilia Costantino Visconti, direttore del dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Palermo, attraverso i temi variegati della giustizia italiana, è alla quinta tappa. Dopo i dialoghi con Stefano Musolino, segretario di Magistratura democratica (21 settembre 2021), Giuseppe Pignatone, attuale presidente del Tribunale dello Stato Vaticano (24 ottobre 2021), Marta Cartabia, ministro della Giustizia (21 dicembre 2021), e Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo (17 febbraio 2022), è la volta di Giuseppe Di Lello, figura storica della magistratura antimafia, a suo tempo giudice istruttore nel pool con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. (Testo elaborato da Andrea Merlo) Costantino Visconti Giuseppe Di Lello, lei è stato magistrato per quasi trent’anni, vivendo la stagione, insieme drammatica ed esaltante, del pool antimafia, e per dieci – fra Roma e Bruxelles – è stato parlamentare. Il suo è un punto di vista prezioso perché appunto «doppio», di magistrato e di politico, per riflettere sul trentennale delle stragi mafiose del ’92 e sulla giustizia penale più in generale. Uno spunto per cominciare il nostro discorso ce lo danno le parole di Fiammetta Borsellino nella conversazione pubblicata in questo giornale.
Giuseppe Di Lello
Sono state parole di forte impatto. Fiammetta si è misurata con temi molto complessi, su ciascuno dei quali occorrerebbe soffermarsi in profondità. E non è questa la sede. Ma quantomeno posso dire che mi riconosco nel suo racconto sul diverso modo di interpretare il ruolo di magistrati che avevamo noi del pool rispetto a tanti altri che sono venuti dopo. Per esempio, nessuno lo mette mai in evidenza: noi non abbiamo mai fatto una conferenza stampa! Oggi sarebbe quasi inconcepibile, ma noi non l’abbiamo mai fatto. Accadeva che Falcone rimanesse perplesso perfino quando alcuni colleghi rilasciavano dichiarazioni in sua difesa. Era un uomo delle istituzioni, non voleva che la magistratura venisse trascinata nel polverone della polemica. Quello che contava per lui – e per noi - erano i risultati investigativi. E in effetti si rivelò il nostro valore aggiunto. Prima che si costituisse il pool e che si affermasse quello che poi è stato riconosciuto come il metodo Falcone e Borsellino, le indagini o non si facevano o venivano condotte con grande sciatteria. Come quando fu rinvenuta nelle tasche del boss Di Cristina, ucciso dai suoi sodali, una mazzetta di assegni circolari del Banco di Napoli intestati a un bel numero di mafiosi impegnati nel traffico di stupefacenti e gli investigatori palermitani si limitarono a mandarli per semplici e inconcludenti accertamenti ai colleghi napoletani. Da Falcone in poi, invece, si sono cominciate a fare seriamente le indagini bancarie e patrimoniali. L’attenzione che mettevamo nella formazione della prova era massima. Possiamo dire che la rivoluzione del pool è consistita nella professionalizzazione dell’attività inquirente.
C.V.
Ritiene che questo sia un risultato acquisito?
G.D.L.
Per molti versi sì. Oggi nessuno si sognerebbe di trascurare i movimenti bancari o i trasferimenti di ricchezza. Rilevo però che a partire da un certo punto in poi in alcuni miei ex colleghi, ispirati forse anche dall’ondata giustizialista, si è fatta strada l’idea che toccasse alla magistratura salvare l’Italia. Nel perseguire questo discutibile obiettivo di moralizzazione pubblica, però, l’accuratezza delle indagini è passata spesso in secondo piano e così sono stati celebrati processi fondati su ipotesi accusatorie risibili, specie quando hanno riguardato esponenti politici. Molte assoluzioni, grandi guasti. Troppe volte la vita democratica nel nostro paese è stata condizionata da iniziative giudiziarie che non dovevano neanche essere intraprese. Per limitarmi solo a Palermo e alle questioni di mafia, basti pensare alle vicende giudiziarie che hanno coinvolto esponenti politici di primo piano, da Mannino a Musotto e Giudice, solo per citarne alcuni. Ma più in generale, a parte i processi di mafia, un esempio fulgido di controllo penale ipertrofico lo abbiamo avuto con le indagini per autoriciclaggio, ora archiviate, a carico del presidente del governatore lombardo Fontana.
C.V.
Aggiungerei anche il caso Renzi: nonostante la Cassazione abbia a più riprese precisato che una fondazione non può assimilarsi tout court a un partito, la procura di Firenze insiste nel contestare il reato di illecito finanziamento richiedendo il rinvio a giudizio dell’ex presidente del Consiglio e di una schiera di parlamentari. Qui il corto circuito è evidente, non solo tra giurisdizione penale e politica ma anche all’interno stesso della magistratura: i pubblici ministeri a volte sembrano un treno in corsa inarrestabile, un corpo a se stante «antagonista» dentro e fuori l’ordine giudiziario. Certo, mi verrebbe da dire che è la legge del contrappasso: nessuno dimentica che Renzi voleva affidare il ministero della giustizia al pubblico ministero Gratteri e che ai primi passi ha sposato una linea legislativa panpenalistica, penso al reato di omicidio stradale. A pensarci, anche nella sua biografia intellettuale viene fuori una sorta di contrappasso: nel bel libro «Giudici» del 1994 lei stigmatizza la magistratura del passato per la sua indolenza e remissività nei confronti del potere, di cui era in ogni caso parte integrante. Oggi, invece, la critica per il motivo opposto, ossia troppo aggressiva, anzi un vero e proprio potere antagonista. Credo che occorre cercare un nuovo equilibrio e liberarsi così di questi due eccessi. Ha suggerimenti per i suoi ex colleghi?
G.D.L.
Intanto di guardarsi i film di Perry Mason e imparare così la cultura della prova dal sistema angloamericano! Battute a parte, rimane sul tappeto una questione cruciale sulla quale la magistratura dovrebbe avviare una riflessione: il rispetto dell’autonomia della pubblica amministrazione e della politica. L’assenza di una vera interiorizzazione del principio di separazione dei poteri e la mancata conoscenza delle regole di funzionamento dell’amministrazione determinano talvolta una insopportabile invadenza della magistratura nella sfera riservata alla necessaria discrezionalità nelle scelte della politica. Una invadenza che a volte è anche arroganza. Il CSM non ha mai voluto occuparsene. E avrebbe dovuto farlo, proprio a tutela della magistratura, per salvaguardarne l’autorevolezza.
C.V.
Proprio in questi giorni si discute della riforma del CSM proposta dal governo e anche dei referendum sulla giustizia dichiarati ammissibili dalla Corte costituzionale. C’è un gran fermento e tanti sono i temi sul tappeto: dal sistema elettorale per l’elezione dei componenti togati dell’organo di autogoverno alla separazione delle funzioni tra pubblici ministeri e giudici. Non ultimo, un aspetto sembrerebbe preoccupare non poco le toghe e cioè la partecipazione degli avvocati nei consigli giudiziari dei magistrati. Alcuni dicono che per tale via si rischia di intaccare l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati.
G.D.L.
Ed io invece non ci vedo nulla di scandaloso. Da parlamentare lo proposi io stesso nel 2008 quando si discuteva il nuovo ordinamento giudiziario ma già allora l’Anm fece quadrato contro. Quanto al CSM, sono indotto a ritenere che, in realtà, non c’è riforma che tenga. Mi spiego. Da tempo l’organo di autogoverno è ormai un centro di potere autoreferenziale e quindi in qualunque modo si congegni il sistema elettivo dei membri del Consiglio la questione centrale resta il progressivo rarefarsi di una autentica cultura istituzionale di indipendenza.
C.V.
C’è un altro punto che vorrei toccare su cui anche Fiammetta Borsellino ha detto la sua seppur non in termini strettamente giuridici, quello del 41 bis. La Corte costituzionale ha chiesto al parlamento di cambiarlo aprendo alla possibilità di concedere alcuni benefici anche ai mafiosi non collaboranti. Si rischia un favore alle mafie?
G.D.L.
La mia esperienza mi dice che è davvero difficile che, specialmente in assenza di scelte impegnative come la collaborazione, un mafioso possa rieducarsi. Ma non c’è neanche dubbio che così com’è il carcere duro è incostituzionale. Fosse anche uno su mille, il mafioso che in carcere riesce a intraprendere un percorso di cambiamento deve poter essere valutato da un giudice e accedere al medesimo trattamento di tutti gli altri detenuti. Non si tratta mica di aprire indiscriminatamente le porte del carcere, ma di affidare alla giurisdizione la valutazione del caso. Dopo i successi segnati allo stato nella lotta alle mafie siamo nelle condizioni di farlo.
C.V.
Ancora il carcere è oggetto di una specie di rimozione. Prevale una visione iperpunitivista della società che si accanisce contro chi finisce negli ingranaggi della giustizia per assolvere tutti gli altri.
G.D.L.
Sì, il sistema penitenziario non dev’essere delegato alla polizia penitenziaria ma va pienamente giurisdizionalizzato. Per certi versi abbiamo assistito perfino a una regressione, anche nel cosiddetto mondo progressista. La sensibilità della nostra classe politica nei confronti del mondo carcerario è plasticamente rappresentata dalla circostanza per la quale da vent’anni a questa parte al vertice del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, vengono nominati sempre pubblici ministeri. Questo ciclo è stato inaugurato proprio dal centrosinistra con la nomina dell’allora Procuratore di Palermo nel 2001. Prima di lui la guida di Alessandro Margara esprimeva tutt’altra sensibilità nei confronti dell’universo penitenziario. Adesso, forse, si è aperta una fase nuova con la nomina a capo del Dap di Renoldi, magistrato di Cassazione con lunga esperienza di giudice di sorveglianza. Mi ha colpito, però, che la nomina è stata criticata da mezzo parlamento, Lega, FDL e M5S in tesa, e neanche il Pd ha speso una parola a sostegno della scelta compiuta dalla Ministra Cartabia.
C.V.
Chiudiamo, come di regola, con un consiglio letterario. Vedo sul tavolo un libro di un autore che a me piace moltissimo.
G.D.L.
Sì, l’ultimo romanzo di Fernando Aramburu, I Rondoni, che sto cominciando a leggere perché ho apprezzato moltissimo il suo precedente lavoro, Patria.