Palermo

Mercoledì 12 Febbraio 2025

Quel vuoto drammatico nell’agenda del Paese

Nessuno parla più di mafia. Lo hanno detto in tanti negli ultimi mesi. Lo ha evidenziato più volte – a giornalisti e a studenti - il procuratore Maurizio De Lucia. Lo ha sottolineato – davanti alle telecamere o sul pulpito dell'inaugurazione dell'anno giudiziario delle polemiche - il presidente della Corte d'Appello Matteo Frasca. Lo hanno ribadito analisti ed esperti. Nessun parla più di mafia. Sui prosceni mediatici nazionali ci si è fermati all'arresto di Matteo Messina Denaro. E sono già passati più di due anni. Oltre lo Stretto è roba ormai stantìa. A Roma una grana localistica alla periferia dell’impero. Nell'agenda politica del Paese il tema è marginale, soppiantato da emergenze belliche, congiunture diplomatiche, contingenze economiche, diatribe paraideologiche, disfide di bottega, operette gossippare. Nelle azioni di governo del territorio, la mafia passa attraverso qualche commemorazione, una sistematina alla ghirlanda sulla lapide del giorno a favore dei fotografi e nulla più, se non un ripetitivo snocciolamento di slogan e concetti astratti. Nel frattempo da queste parti i boss escono dal carcere e provano a tornare a fare i vecchi pupari, magari spaesati e demodè, ma ancora temuti e rispettati. Quelli che restano in carcere - fuori dal regime sempre più residuale del 41 bis - muovono comunque i fili dei burattini via etere. Tanto i droni volano indisturbati sui tetti dei penitenziari, i telefonini criptati entrano nei bracci di detenzione lungo i canali di torbide connivenze interne, le microsim si nascondono in un'unghia o sotto la lingua. Mentre parallelamente sulle intercettazioni si arretra, quando basterebbe invece farne uso accorto, attento e responsabile e non troppo spesso clava da impugnare nel vecchio gioco del reciproco interesse giustizia-giornali. Non che qualche magistrato ogni tanto non ci metta qualcosa di suo, riducendo i termini di un dibattito su stato di salute e riforma della giustizia a una mera guerra di posizionamento fra fazioni contrapposte. Grazie anche a una certa politica non di rado insofferente alle legittime recriminazioni di parte. Comprese quelle del diritto-dovere di un'informazione progressivamente intrappolata nelle alchimie legislative di chi in nome di un deviato concetto di garanzia e privacy pensa di buttare via l'acqua sporca con tutto il bambino. Nessuno parla più di mafia. E invece Cosa Nostra c'è ancora. Eccome. Non ha più grandi padrini inafferrabili, ma cerca costantemente di ricostituire una parvenza di Cupola. E non c’è riuscita finora sol perché l'efficace azione congiunta e martellante di inquirenti e forze dell'ordine sposa con la sostanziale volubilità delle cosiddette nuove leve, rampolli di basso cabotaggio senza pedigree e senza seguito. I vecchi boss escono, ma in carcere ormai ci tornano sempre più spesso e sempre più repentinamente. Lo dimostra la retata che dieci giorni fa ha preceduto questo maxi blitz e ha riportato in gattabuia tre vecchi mammasantissima ultrasettantenni come Franco Bonura, Girolamo Buscemi e Agostino Sansone, tornati uomini liberi – di delinquere - ma mai persi di vista dagli inquirenti. Magra consolazione, quando poi però si scopre che la consistenza carceraria ha ormai lo stesso spessore della carta velina (non certo solo per l'abusato alibi, pur reale, del sovraffollamento). E la via digitale – territorio troppo spesso ancora vergine per le forze di contrasto dello Stato, pienamente votate ai limiti dei doveri legislativi - è ormai sapientemente battuta senza alcun tipo di remora o controllo dai clan. Basta un cellulare criptato che comunica in sola uscita con un telefono-citofono e il metodo investigativo dell'incrocio dei dati va in malora. Nessuno parla più di mafia. Un arretramento grossolano, pericoloso e masochista, dettato in gran parte dal fatto che è ormai stata consegnata agli archivi più tragici della storia contemporanea di questo Paese la spettacolarità scenografica ma alla lunga perdente (a che prezzo, però?) della stagione stragista. Le cosche sparano molto poco e non ammazzano praticamente più, pur se le armi non mancano affatto, acquistate soprattutto all'aftermarket clandestino del dark web. Oggi è più conveniente stringere mani che impugnare pistole, tessere affari più che maturare vendette di sangue. Funzionano di più le connivenze a fari spenti che le sfide all'OK Corral. Classe politica e tessuto imprenditoriale, professionisti e colletti bianchi restano più che mai terreno fertile. Il riciclaggio di denaro sporco, l'acquisizione indiscriminata di aziende e azioni, il gioco d'azzardo clandestino (altra frontiera digitale ancora non adeguatamente normata), il controllo degli appalti, la gestione di potere burocratico (sempre forte, fortissimo, in un Paese che di burocrazia continua a vivere e boccheggiare) si aggiungono ai principali e mai essiccati canali di sostentamento, dalle estorsioni alla droga. In fondo, basta solo adeguarsi ai tempi. Non serve andare a rastrellare commercianti soggiogabili, col rischio di bruciarsi puntando sull'intransigente e incorruttibile di turno (ce ne sono tanti, vivaddio). Basta attendere che si presentino loro al proprio cospetto, per convenienza calcolata: il sostegno delle istituzioni contro il racket ha ormai dimostrato di funzionare e dunque oggi chi paga il pizzo lo fa perchéè sceglie liberamente e deliberatamente di farlo. Complici e non più vittime (ce ne sono troppi, purtroppo). E la droga? Quella che oggi è in assoluto la prima fonte di reddito della mafia è ormai straripata dalla qualità alla quantità: la coca tiene, l'eroina pure (30 kg complessivi sequestrati non più tardi di 48 ore fa in casa di una insospettabile nigeriana a Ballarò), l'erba resta un evergreen (ci si perdoni il gioco di parole), ma è sul mercato di massa che ormai si punta sempre di più, grazie alle sostanze a prezzi modici drammaticamente di moda fra i giovanissimi. Ieri anfetamine, meta-anfetamine, ecstasy. Oggi crack. Il cui consumo scivola sempre più indietro, fino alle soglie minime dell'adolescenza. Spaccio invisibile, parallelo allo smercio tradizionale, fra movida giungla e interi quartieri diventati piazze privilegiate (da Ballarò allo Sperone, per citare la sola Palermo), canali aperti con la Calabria, la Campania, il Sudamerica, alleanze strette e solide con la camorra, la 'ndrangheta, i narcos sudamericani, gli scappati in America. Nessuno parla più di mafia. Ma la mafia c'è, ha fondamenta solide e fondi consistenti. Sta solo cercando di riorganizzarsi come entità verticistica, per uscire dalle secche dell’attuale frammentazione e dispersione, figlia delle evidenti batoste subite dal punto di vista però più strettamente militare e repressivo. Che solo in parte sopperisce alle carenze sempre più marcate di una qualunque azione preventiva, sia essa di natura politica, sociale o educativa. Preso e morto l'ultimo superlatitante, qualcuno pensava che si potesse passare serenamente avanti, oltre la fisiologia di qualche retatina specifica qua e là. Ieri sono serviti oltre 1.200 carabinieri per arrestarne in un colpo solo ben 181, smantellando una mezza dozzina di storici mandamenti. Intercettato, uno dei boss finiti nella rete raccontava al suo interlocutore che «l'Italia per noi è diventata scomoda. Io me ne devo andare perché non intendo assolutamente perdere quello che ho creato fino ad oggi. Cominciate a farvi i passaporti». Bello poterlo leggere. Ma dobbiamo continuare a lasciare tutto il lavoro nelle mani dei magistrati e degli uomini in divisa? Oppure sarebbe il caso di tornare a parlare della mafia che vive e prolifera oggi, senza dover per forza parlare solo della mafia che si pensa di aver battuto ieri? In caso contrario, basta un cellulare criptato e va a farsi benedire, oltre alla prevenzione, anche la repressione. E a quel punto i passaporti non servono affatto.

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