La costituzione e l’utilizzo di società di diritto privato da parte degli enti locali rappresenta una modalità di erogazione dei servizi d’interesse generale alternativa rispetto al ricorso al mercato degli operatori privati e/o alla cd. autoproduzione; scelte queste ultime tutte possibili e lecite se dotate di razionalità in termini di costi-benefici per la collettività e la stessa p.a. Di fatto, a partire dagli anni novanta del secolo scorso, il ricorso alla forma giuridica privatistica è gradualmente divenuto la modalità più diffusa di prestazione dei servizi pubblici locali in favore della cittadinanza, sul presupposto – a torto o a ragione – che il modello societario sia quello più efficace ed efficiente per l’esercizio di un’attività economica, in grado di eliminare, o quantomeno limitare, le disfunzioni tipiche delle modalità organizzative della pubblica amministrazione. Così si è assistito ad un proliferare di società a partecipazione pubblica, incaricate di offrire servizi ai cittadini e non di rado caratterizzate dalla pregnante forma di controllo da parte dell’ente locale tipica delle cd. società in house. Si tratta, in tale ultimo caso, di società interamente partecipate da uno o più enti pubblici, salvo ipotesi marginali in cui la legge consente una limitata partecipazione di soggetti privati, e la cui unica (o preponderante) attività consiste nell’offrire servizi di interesse generale su incarico dell’ente o degli enti pubblici soci, generalmente sulla base di una convenzione volta a definire le modalità di esercizio del servizio da parte della società ed i rapporti con l’ente concedente. La caratteristica essenziale delle società in house viene rintracciata nel fatto che il socio pubblico - spesso un ente territoriale - è potenzialmente in grado di esercitare sulla società partecipata un controllo analogo a quello svolto sulle proprie articolazioni interne. Ebbene, in ragione di tale sostanziale assenza di alterità soggettiva tra l’ente socio e la società controllata, l’affidamento del servizio alla società in house non necessita di gara pubblica. È evidente, dunque, che la costituzione di società in house consente alla p.a. di avvalersi del modello della società privata – con le relative caratteristiche organizzative - senza però ricorrere al mercato degli operatori economici, così evitando i tempi e i costi della procedura di gara e mantenendo un forte controllo sulle modalità di erogazione del servizio. Se non che, dovrebbe essere altrettanto evidente che lo strumento privatistico non può prestarsi solo all’ottenimento di vantaggi per l’amministrazione socia – ad es. in termini di maggiore flessibilità organizzativa, limitazione del rischio di impresa al patrimonio della società, privatizzazione dei rapporti contrattuali, ivi inclusi quelli di lavoro -, dovendosi affiancare ai suddetti «benefici» anche i «costi» imposti da tale modello, ed in prima battuta il rispetto del necessario equilibrio economico della società stessa. Ciò significa che l’attività che la società partecipata si propone di svolgere – anche qualora si tratti di una società in house – deve essere programmata secondo modalità che siano quantomeno astrattamente e aprioristicamente in grado di produrre ricavi tali da coprire i costi in una prospettiva di lungo periodo (cd. metodo economico). E un simile risultato non può che essere strettamente connesso alle condizioni economiche previste dalla convenzione di servizio, che finiscono nella sostanza per essere unilateralmente imposte dal socio pubblico, specie quando esercita il cd. controllo analogo sulla società in house. Sarà allora responsabilità di quest’ultimo non soltanto predisporre condizioni contrattuali improntate alla sostenibilità economica dell’attività sociale nel lungo periodo, ma altresì adeguare opportunamente tali condizioni nel caso in cui ciò si riveli necessario durante l’esecuzione del servizio e adempiere tempestivamente alle proprie obbligazioni nascenti dal contratto di servizio, soprattutto in relazione al pagamento di eventuali corrispettivi in favore della società partecipata. A fronte del rischio del venir meno dell’equilibrio economico, dunque, l’ente pubblico dovrebbe avere la capacità ed il coraggio di assumere tutti gli opportuni provvedimenti, impartendo le necessarie direttive agli organi sociali, adeguando se del caso le condizioni contrattuali della convenzione di servizio, nonché attivando le eventuali procedure di risoluzione della crisi di impresa, che nei casi più gravi possono sfociare anche nella liquidazione giudiziale della società (procedura fino a poco tempo fa ben più nota con il nome di «fallimento»). Se ne deduce che la crisi economica in cui versano molte società partecipate dagli enti locali è spesso imputabile all’ente territoriale socio, che non ha saputo (o voluto) adottare i provvedimenti necessari al mantenimento dell’equilibrio economico delle stesse, non di rado preferendo comunque mantenere in vita società decotte per scopi elettorali e/o finalità latamente assistenziali, con inevitabile sperpero di denaro pubblico e abbassamento del livello qualitativo dei servizi a danno dei cittadini. * ordinario di diritto commerciale nell’Università di Palermo