L'addio a Pippo Baudo. Da Militello a Roma, il successo grazie a Rin-Tin-Tin
Si intitolava «L’uomo che inventò la televisione» la commedia musicale che scrissero per lui Enrico Vaime e Iaia Fiastri negli anni ’90. La diresse Pietro Garinei, musiche di Claudio Mattone, la produsse la premiata ditta Garinei & Giovannini. Era un omaggio, un’autocitazione ma era anche un desiderio: quello di Pippo di tornare al teatro, il suo primo amore che, una volta a Roma, arrivato da Militello Val di Catania, la laurea in legge conservata in un cassetto, aveva ben presto abbandonato a favore di telecamera all’alba degli anni ‘60. Non fu un gran successo, quello spettacolo, anzi fu un mezzo flop, il tempo di una sola stagione e non se ne parlò più. Mai titolo però fu più azzeccato. Perché si può davvero dire che, in Italia, Pippo Baudo è stato uno dei padri fondatori di quel palcoscenico in pollici che è il teleschermo, nessuno come lui ha incarnato, attraverso tutti i generi dell’intrattenimento leggero (dai quiz ai varietà del sabato sera, dal “contenitore” che sposava cultura, attualità e show al Festival di Sanremo) quello che la lucetta rossa e un’antenna hanno diffuso per un sessantennio (il tempo lunghissimo della sua carriera) nelle case del nostro Paese. È una piccola nicchia quella in cui forgia la sua empatia con il pubblico perché in via Teulada, al provino, hanno deciso (c’era anche Falqui tra gli esaminatori) che è “adatto a programmi minori”. Ma è grazie a “Guida degli emigranti” e a “Telecruciverba” che fa capolino nel tinello degli italiani. La popolarità però la deve a un cane, in quegli anni assai più famoso di lui, Rin-Tin-Tin (una volta mi disse: “Anche oggi, quando vedo un cane per strada, mi viene quasi da inginocchiarmi”): il tecnico di turno non trova la “pizza” del telefilm e la prima cosa che gli capita fra le mani è il “numero zero” di “Settevoci”: la gara canora delle giovani ugole votate in studio dall’applausometro è un successo fortuito e inatteso. Nascono Baudo e il baudismo che è un nuovo modo di colloquiare col “pubblico a casa”: meno affettato di quello di Enzo Tortora, meno notarile di quello di Mike Bongiorno. Il presentatore lascia il posto al conduttore. La successiva prova del fuoco sarà il suo primo Festival di Sanremo (13 edizioni in tutto), quello del ‘68, il più complicato da pilotare dopo la tragedia del suicidio di Tenco della precedente edizione. Ne esce vincitore, nemmeno l’ufficialità della gara canora scalfisce una familiarità che va sempre cementandosi con chi sta davanti al televisore. È un po’ l’uomo delle sfide impossibili, d’altronde: perché qualche anno dopo, prende in mano la “Canzonissima” di oceanico successo della coppia Corrado-Carrà del biennio ‘70-’71 e riesce a condurla in porto nonostante l’Italia dei primi anni di piombo e dell’austerity con lo spostamento della kermesse alla domenica pomeriggio. Ma la sfida è anche quella del giorno di festa e a “Domenica in”, dalle due del pomeriggio alle otto di sera, tra la fine degli anni ‘70 e metà anni ‘80, ospita in studio politici, scrittori, attori, cantanti, filosofi e scienziati e battezza il “contenitore”. La sfida è pure inventarsi nuove formule di intrattenimento, meno tradizionale, cercare volti nuovi che si affaccino alla ribalta tv e da “Non stop” a “Luna park” sbucano fuori Grillo, Troisi, Verdone, Heather Parisi). Ma la natura di talent scout Pippo la sfodera anche nei suoi trionfali Sanremo, che tracciano il solco di un preciso format baudiano nel festival (la valletta bruna e la valletta bionda, gli intermezzi dei comici, i superospiti stranieri, il Dopofestival) ma anche la scoperta di talenti della musica come Ramazzotti, Pausini, Giorgia, Bocelli. L'articolo completo oggi sul Giornale di Sicilia in edicola e nell'edizione digitale.