Palermo

Giovedì 22 Maggio 2025

Francesco Paolo Di Blasi, un rivoluzionario che amava la Repubblica

In piazza Indipendenza, nella facciata dell’immobile sede del Distretto militare, dal 1895 una lapide, ben leggibile, ricorda agli astanti che in quel luogo il 20 maggio 1795 (230 anni fa esatti) Francesco Paolo Di Blasi, «giureconsulto insigne, propugnatore invitto dei diritti dell’Uomo, per accusa di cospirazione repubblicana, cadeva ucciso dal carnefice». Nessun riferimento all’atroce sorte toccata a Giulio Tenaglia, Benedetto La Villa e Bernardo Palumbo, presunti complici del nobile Di Blasi. A causa della loro umile condizione sociale, anziché essere decapitati, furono impiccati. In quasi tutti i libri, questo non secondario episodio di storia siciliana è appena accennato. Fra i letterati di spicco, solo Leonardo Sciascia, nel suo Il Consiglio d’Egitto, si è diffusamente soffermato sul personaggio Di Blasi, dedicandogli toccanti pagine. Ma cosa si può dire di più di Francesco Paolo Di Blasi? Perché fu inviso al regime borbonico? Che reati commise per «meritare» la pena di morte? Egli era nato a Palermo nei primi giorni del dicembre 1755, figlio del nobiluomo Vincenzo, giurista, letterato e poeta, assai noto per aver ricoperto importanti cariche pubbliche. Questi morì nel 1756, quando Francesco Paolo aveva compiuto appena un anno. Gli zii paterni, Salvatore e il più noto Giovanni Evangelista, entrambi monaci benedettini, si presero cura di quel vivace nipotino. Lo istruirono fino al compimento degli studi giuridici. Dopo esercitò la professione di avvocato e ricoprì l’ufficio di giudice della Gran corte pretoriana. L’attività forense non lo distolse dal coltivare le proprie idee politiche e di occuparsi di questioni sociali. Studioso attento del suo tempo, stigmatizzò la natura dispotica del regime borbonico che opprimeva il Regno di Sicilia. Conquistato dagli ideali della Rivoluzione francese, aderì al movimento culturale e filosofico dell’Illuminismo sorto per affermare il primato della ragione, lo spirito critico e l’apprendimento del sapere. Nel 1778 pubblicò una Dissertazione sopra l’egualità e la disuguaglianza degli uomini in riguardo alla loro felicità. Poi fu incaricato di compilare una Raccolta di prammatiche del Regno di Sicilia, che si rivelò un utile riordino di decreti e disposizioni varie. Nel 1790 diede alle stampe il Saggio sopra la legislazione della Sicilia, in cui evidenziava la necessità di emanare un nuovo codice che si caratterizzasse per brevità e chiarezza. Fino a quando governarono la Sicilia, uno dopo l’altro, due viceré di cultura riformista come Domenico Caracciolo e Francesco d’Aquino, principe di Caramanico, per Di Blasi le cose filarono lisce come l’olio. A partire dal gennaio 1795, invece, per lui il clima politico cambiò bruscamente a causa della nomina a viceré di Filippo Lopez y Royo, arcivescovo di Palermo e presidente del Regno, «uomo ambizioso e truce», contrario a ogni novità. Non c’è dubbio che l’avvocato Di Blasi, assertore della libertà, dell’uguaglianza, dei diritti del cittadino ma anche nemico giurato dell’arbitrio, delle ingiustizie sociali, della pena di morte e della tortura, fu tra i primi a essere preso di mira dalla allertata polizia borbonica. Inizia per lui una pianificata persecuzione giudiziaria con un finale assai crudele. Diversi autori sostengono acriticamente che Di Blasi fu accusato, sulla base di una delazione, di aver preparato una congiura con lo scopo di uccidere, il 3 aprile 1795, l’arcivescovo Lopez e di dichiarare decaduta la monarchia borbonica per far nascere la Repubblica. Lo storico Francesco Renda, nella sua monumentale Storia della Sicilia, mostra di possedere meno certezze, evidenziando che «di sicuro contro Di Blasi c’era, pertanto, la sua nota formazione illuministica nonché il suo speciale rapporto col defunto viceré Caramanico. Ancora oggi non è dimostrato che egli avesse condiviso principi giacobini e che effettivamente stesse preparando una rivolta dalle dimensioni imputategli. Le persone coinvolte nella congiura, intorno alla ventina - conclude Renda – non erano peraltro di qualità tale da sommuovere un regno». La sentenza, assai contorta, poggiava sul nulla. Si doveva solo spegnere una voce libera. Di Blasi, benché sottoposto più volte a terribile tortura, negò decisamente sia la congiura che la presenza di complici. Sul patibolo, come scrissero testimoni del tempo, per nulla intimorito dal boia e dalla mannaia, ebbe «un comportamento ammirevole e dignitoso». Con lui morì la flebile speranza di inaugurare, anche in Sicilia, la stagione delle riforme liberali e della modernità. Ancora una volta e per lunghi decenni, l’oscurantismo borbonico finì per avere la meglio con grande gioia dei regnanti e della classe feudale, che continuò a rafforzare il suo potere politico e contrattuale. Dopo oltre due secoli dal sacrificio di Di Blasi e dei suoi amici, i loro ideali, che conservano intatta validità e necessità, tuttavia sono ancora negati a gran parte dell’umanità. Non è un caso che il nuovo Papa Leone XIV, nei suoi primi interventi, ne ha sollecitato la rigorosa applicazione ai governanti di quei non pochi Paesi ottusamente desiderosi di «costruire muri e non ponti». Chi prevarrà?

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