È calato, di recente, il sipario sulle poche manifestazioni culturali organizzate per onorare la memoria e l’opera, nel centenario della scomparsa, avvenuta a Palermo il 29 settembre 1923, del grande musicista siciliano Alberto Favara, considerato uno dei «padri nobili» della etnomusicologia. Teresa, sua terza figlia, autrice della più completa biografia sul padre, pubblicata dall’editore Flaccovio nel 1971, scrisse che Favara merita di essere ricordato «soprattutto per la monumentale opera di ricerca della musica popolare siciliana, che lo colloca fra i pionieri della moderna etnomusicologia». Il maestro Favara nacque a Salemi il primo marzo 1863. I suoi avi, sia paterni che materni, sono stati convinti sostenitori della causa unitaria italiana a partire dal 1848. Molti suoi antenati, esponenti del ceto borghese di Salemi, furono attivi cospiratori cui la reazione borbonica inflisse esilio e carcere. Nel 1860 appoggiarono l’impresa garibaldina con armi, denaro e ospitalità. Successivamente ricoprirono importanti incarichi elettivi nel loro Comune, a Trapani, a Palermo e nel Parlamento italiano. Fedeli a Garibaldi e ai suoi ideali, lo sostennero fino all’ultimo. Simone Favara, padre di Alberto, nel 1881 fu eletto sindaco di Salemi. Restò in carica poco più di un anno, non potendo conciliare le pubbliche responsabilità con la sopravvenuta travagliata vita privata e familiare. In un clima di difficoltà di vario tipo, Alberto, come raccontato dalla figlia, ebbe «una fanciullezza e una adolescenza senza focolare». Nondimeno frequentò il Convitto Vittorio Emanuele di Palermo e, appena diciassettenne, manifestò il suo interesse per la musica iscrivendosi al Conservatorio cittadino dove conseguì il diploma. All’età di trent’anni, nominato docente nel medesimo Conservatorio, ottenne la cattedra di Solfeggio e Armonia e, poi, quella di Composizione. Nel 1911 e per un biennio, fu nominato direttore del prestigioso istituto. Negli studi e nell’insegnamento si distinse per impegno e competenza. Approfondì l’opera del filosofo Friedrich Nietzsche e le relazioni tra musica e poesia nella tragedia e nella lirica dell’antica Grecia. A seguire studiò le opere di Arthur Schopenhauer e di altri filosofi che manifestarono attenzione alla musica colta. Inoltre subì il fascino della immensa produzione di due colossi della musica classica: Richard Wagner e Ludwig van Beethoven. Le conoscenze acquisite influirono non poco sulla sua formazione di musicista che di prolifico compositore. Tra il 1891 e il 1894 compose «Urania», melodramma in tre atti. L’opera, apprezzata dalla critica, fu rappresentata al teatro alla Scala di Milano il 9 dicembre 1918, sotto la direzione di un grande direttore d’orchestra come Tullio Serafin. Nel 1884, sempre a Milano, al Teatro Dal Verme, venne eseguita la sua opera giovanile «Marcellina». In quel periodo si consolidò la sua amicizia con il quasi coetaneo Giacomo Puccini. Sul finire del travagliato ‘800, intraprese la ricerca e raccolta di materiali utili per comporre il Corpus di musiche popolari siciliane, dopo aver pubblicato i «Canti della terra e del mare di Sicilia». Ebbe anche il tempo per elaborare un volume sull’antichità classica e del Rinascimento. Il Corpus è costituito da ben 1090 melodie! Raccolte, non senza difficoltà e sacrifici, a Salemi e in altri comuni del trapanese, a Palermo, a Modica e nel ragusano e in molti centri della parte orientale dell’Isola. L’attività di raccolta durò più di sette anni, dal 1898 e il 1905. Il musicologo Paolo Emilio Carapezza, professore emerito dell’Università di Palermo, raccontò a chi scrive che Favara poi «dovette desistere perché per tale attività egli aveva a disposizione solo i mesi delle vacanze estive ovvero il periodo libero dagli obblighi dell’insegnamento. Ma il suo proposito era di raccogliere melodie in tutta la Sicilia. Alberto Favara si recò più volte a Roma per cercare d’ottenere almeno l’esenzione dell’insegnamento per qualche anno. Non l’ottenne. A quell’epoca probabilmente - precisa un po’ divertito il professor Carapezza - lo credevano un tantino matto, uno che andava appresso alle canzoni dei contadini, pescatori e carrettieri». Amareggiato per l’incomprensione e l’ostracismo che serpeggiavano nelle sedi che avrebbero dovuto dargli una mano per agevolarlo nel portare a compimento un’opera unica nel suo genere, per un congruo periodo rimase quasi bloccato. All’improvviso comprese che non doveva mollare e, con la tenacia dei geni che si lasciano guidare dalla ragione, si mise a girare per la Sicilia con ogni mezzo (a cavallo, in treno, con il calesse) raccogliendo, con pazienza e lucidità, dalla viva voce di pastori, contadini e pescatori, le melodie utili per portare a compimento la sua monumentale opera i cui manoscritti rimasero chiusi, per lunghi anni, in un armadio di famiglia. Si deve alla sagacia dell’ex allievo e poi genero di Favara, Ottavio Tiby, musicologo, storico e, dal 1920 al 1950, critico musicale del Giornale di Sicilia, il riordino dei 1090 canti e dell’ingente materiale, lasciato dal suocero, secondo un criterio scientifico. Finalmente, nel 1954, dopo innumerevoli e faticose peripezie, la Regione Siciliana, per decisione del presidente Franco Restivo, finanziò la pubblicazione, sotto il patrocinio dell’Accademia di Lettere, Scienze ed Arti di Palermo, dell’opera intitolata, come già anticipato, «Corpus di musiche popolari siciliane» con una forbita prefazione del famoso etnologo Giuseppe Cocchiara. I manoscritti originali di Favara (canti lirici, ninne-nanne, canti del mare, canti religiosi, canzoni a ballo, “tammurinate”, “abbanniatìne”, musiche strumentali, ecc.) sono stati donati dai familiari al museo «Giuseppe Pitrè» di Palermo dove, ancora oggi, sono custoditi. Ironia della sorte, alla pubblicazione integrale dei canti, in due grossi volumi, avvenuta nel luglio del 1957, non assistettero né Favara né Tiby. Il primo perché defunto da 34 anni, il secondo, dopo aver consegnato la stesura finale del Corpus per la stampa, il 4 dicembre 1955, in seguito ad un incidente stradale, perse la vita sul selciato davanti al Teatro Massimo. A parte qualche marginale bilioso dissenso, il mondo della musica e della cultura ha sempre tributato ad Alberto Favara corale riconoscenza e gratitudine per la mole e qualità della sua produzione artistica. I suoi allievi Francesco Paolo Mulè, Gino Marinuzzi, Filippo Ernesto Raccuglia, grazie agli insegnamenti ricevuti, non ebbero difficoltà ad affermarsi nel mondo musicale. Tra i suoi «allievi» occorrerebbe annoverare anche le sue quattro figlie che Favara, senza esitazione, avviò verso lo studio della letteratura, delle arti figurative e, naturalmente, della musica. Non è un caso che ognuna di esse suonava uno strumento: Maria il violino, Teresa il violoncello, Diana il pianoforte, Anna, pur attratta dalla scultura, non rinunciò, saltuariamente, a strimpellare qualcosa. Alberto Favara era orgoglioso della sua prole perché, come lui, considerava la musica «arte sublime e mezzo di elevazione sociale e spirituale… ma anche arte del movimento insieme alla danza e alla poesia». I suoi «Canti», come e stato sottolineato nei convegni commemorativi, resistono all’usura del tempo. Ottima notizia che mette all’angolo quanti sostengono che siamo entrati nel «tunnel della memoria perduta».