La mafia aveva progettato di eliminare la donna magistrato che per 40 anni è stata una protagonista della terrificante stagione della lotta a Cosa nostra. È una storia che, a pericolo scampato, Teresa Principato rievoca in un libro, «Siciliana», edito da Rcs: una memoria storica dai forti toni critici su un lungo percorso insanguinato dalle stragi e inquinato da un garbuglio di veleni, scontri, minacce, depistaggi.
Teresa Principato ripercorre quella esperienza cominciata a Caltanissetta e proseguita a Palermo e Trapani per concludersi alla Direzione nazionale antimafia. Lungo un fronte molto caldo ha vissuto gli anni intensi del pool antimafia, le ostilità verso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il loro isolamento dentro e fuori dal palazzo dei veleni, gli attentati, le trame dei poteri occulti, la caccia ai grandi latitanti, la mancata cattura di Bernardo Provenzano e la ritardata perquisizione del covo di Totò Riina, la penetrazione di Cosa nostra nell’economia legale. Ma anche le divisioni e le polemiche laceranti a palazzo di giustizia. E questa non è solo storia passata. Teresa Principato ha vissuto tutto questo in presa diretta e ne ricostruisce i passaggi salienti con un esercizio sofferto di memoria che parte dall’infanzia nel paese di Naro, in provincia di Agrigento, e dal ricordo di una famiglia borghese tradizionale nel contesto di una Sicilia patriarcale. Proprio in contrapposizione con l’educazione familiare la giovane Principato ha modellato una struttura mentale aperta con scelte libere e coraggiose. Tracce di quella tenacia si ritrovano nella vita privata, con il matrimonio con Roberto Scarpinato, e nel modo in cui ha svolto il suo ruolo. Ricorrono nel suo racconto momenti memorabili come lo scontro con il procuratore Pietro Giammanco criticato per avere contribuito all’isolamento professionale prima di Falcone e poi di Borsellino tenuto ai margini delle inchieste più importanti fino al giorno della strage di via D’Amelio. Teresa Principato firmò allora con altri sette sostituti una lettera di sfiducia nei confronti di Giammanco costretto a lasciare Palermo e concludere la carriera in Cassazione.
Ma anche i rapporti con altri procuratori sono stati problematici. Troppe prudenze e gestioni che, accusa Principato, non raccoglievano in pieno l’eredità giudiziaria di Falcone e Borsellino. Ecco perché nel libro si leggono critiche molto nette ai metodi di vari procuratori, da Pietro Grasso a Giuseppe Pignatone, da Francesco Messineo a Francesco Lo Voi. Ben diverso il giudizio su Gian Carlo Caselli al quale riconosce di avere alzato il livello delle inchieste sui rapporti tra mafia, affari, politica e massoneria deviata. «Eravamo una bella squadra», ricorda. Ma proprio allora il clima cambiò. E quella «bella squadra», che aveva cominciato a rivolgere l’attenzione anche «verso medici, politici, amministratori, commercialisti, imprenditori e notai» venne accusata di intentare «processi politici» e di costruire «teoremi».
Anche l’esperienza trapanese aveva posto Principato, durante le inchieste sulla massoneria deviata e la caccia a Matteo Messina Denaro, di fronte a gravi episodi che finivano per colpire proprio nomi simbolici dell’antimafia: l’attentato al commissario Rino Germanà, i trasferimenti dei commissari Giuseppe Linares e Saverio Montalbano che indagavano sulle logge, l’allontanamento del prefetto Fulvio Sodano che cercava di salvare un bene confiscato alla mafia. E mentre Principato indagava si alzava il pericolo su di lei e sulla sua famiglia. Prima la rivelazione di un pentito su un progetto di attentato nei suoi confronti di cui venne a conoscenza con un anno di ritardo. Poi le minacce perfino per il figlio Giuliano che si ribellò all’idea di andare a scuola e vivere anche lui sotto scorta. Fu subito spedito in Inghilterra a perfezionare l’inglese. Giuliano è poi diventato un attore e un regista e su quel periodo infernale, che pesò tanto sull’armonia familiare, ha scritto un testo teatrale.
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