Le donne: «Ancora oggi devono conquistarsi uno spazio». Marco Bellocchio: «Arrogante, ma lo adoro». Palermo: «felice di esserne cittadina onoraria»... Margarethe von Trotta a tutto campo. A Palermo, al cinema Rouge e noir, è stata protagonista ieri sera di «Altre Rive», Festival cinematografico interculturale che porta in Sicilia il meglio dei film delle ultime edizioni della Berlinale e di altri importanti rassegne. La regista tedesca presentava la sua ultima opera «Ingeborg Bachmann-Journey into Desert», recente successo alla 73esima Berlinale, in anteprima siciliana. Ma per von Trotta, vitalissima e dal grande senso dell’umorismo, è stata anche l’occasione per parlare di altro. Il giorno prima nel capoluogo siciliano c'era stato il suo collega italiano Marco Bellocchio dove ha presentato il suo «Rapito». E a chi la informa, risponde di getto davanti al taccuino dell’AGI: «Bellocchio è un pò arrogante, ma lo adoro. E’ un genio, un timido geniale». Poi il suo rapporto con la capitale siciliana: «Io sono cittadina onoraria di Palermo, sono qui anche per questo, perchè mi sento legata a questo luogo. Ne sono cittadina». Un città, Palermo, dove storicamente, peraltro, è attivissimo il Goethe-Institut. Non sorprende questa passione profonda, quasi carsica, tra due mondi diversi, quello tedesco e quello mediterraneo. Proprio lo scrittore Johann Wolfgang Goethe è l’anello di congiunzione più celebrato e citato: Il 29 marzo 1787 lasciò Napoli per iniziare la traversata verso la Sicilia. La visita a Palermo offrì al pensatore tedesco le immagini sfarzose delle chiese e un’architettura eccessiva. Toccò i giardini pubblici come Villa Giulia, un luogo che colpì l’immaginazione del poeta per la rigorosa simmetria e la vegetazione ricca e ostinata, proseguì verso il cuore delle memorie greche: il tempio di Segesta. Ebbe a dire, sintetizzando il suo pensiero, che «L'Italia senza la Sicilia, non lascia alcuna immagine nell’anima: qui è la chiave di tutto». Al centro della narrazione di Margarethe von Trotta in questo film, spiega la stessa regista, «c'è la complessità del mondo femminile» che «anche oggi deve reclamare e prendersi il suo spazio e la sua parola». C'è l’esplorazione di una grande figura femminile che il suo cinema celebra sin dalle prime opere come Schwestern oder Die Balance des Glucks (1978) Das zweite Erwachen der Christa Klages (1979), e Die bleierne Zeit (1981) - che le valse, prima donna nella storia, il Leone d’oro - fino ai più recenti ritratti di Rosa Luxemburg, Hanna Arendt e Hildegard von Bingen. La regista ritorna con un nuovo personaggio che colpisce per struttura e storia, la scrittrice e poetessa Ingerbog Bachmann, indagandone il rapporto tormentato con Max Frisch. «Donna certamente più avanti del suo tempo», sottolinea von Trotta, marcata «da un desiderio di forte autonomia, ma anche di protezione». Il drammaturgo Max Frish, con cui vive una relazione appassionata e tormentata, «risponde a questa doppia esigenza, anche fisicamente». Poderoso, «forse troppo chi lo ha interpretato - sottolinea sorridendo - ma desideravo da tempo fare un film con il bravissimo Ronald Zehrfeld: mi aveva promesso che sarebbe dimagrito, mi aveva firmato una carta - ride - ma non ha tenuto fede alla promessa...». Vicky Krieps che interpreta la poetessa, «anche lei formidabile, l’ho sempre desiderata in un mio film. Il sorriso fa parte del repertorio di ogni attore, ma in lei, quando sorride, si accende come un sole ed è una qualità soltanto sua, eccezionale», una luce vera e propria, «elemento essenziale in questo film». Spiega ancora Margarethe che ci sono due deserti, e quello della Giordania, sugli echi e le citazioni esplicite di Lawrence d’Arabia ne dà una rappresentazione oggettiva, fisica: «Un deserto dei sentimenti», che esprime la parabola di «tante storie d’amore di tante nostre relazioni», e il deserto dove la protagonista «va con questo giovane austriaco e dove diventa sempre più sana», recuperando se stessa e la sua ispirazione: «Questo deserto è la mia salvezza», dice infatti la poetessa tedesca. Un invito a riflettere sui nostri deserti: quelli da cui congedarsi e quelli da attraversare come un «limbo necessario» per riappropriarsi di sè.