PALERMO. Le grate alle finestre sono rimaste.
E così anche lo stretto confessionale in pietra, il giardino, i lunghi e silenziosi corridoi, le celle delle suore di clausura con i lettini ordinati e puliti, il refettorio, le grandi cucine.
Ma soprattutto la ruota dove non passavano solo i vettovagliamenti e i dolci.
Per secoli su questa ruota, che padre Giuseppe Bucaro direttore dei beni culturali della Curia mostra spiegandone la funzione caritatevole, venivano lasciati anche i bambini abbandonati.
E le suore se ne prendevano cura per assicurare loro una sopravvivenza decorosa ma un futuro pur sempre incerto.
Il convento di Santa Caterina di piazza Bellini, nel cuore di Palermo, che si porta dietro una storia lunga sette secoli, si apre per la prima volta al pubblico da sabato.
Per pochi giorni e non tutto ma una parte: il chiostro maiolicato con la fontana progettata da Ignazio Marabitti e la statua di San Domenico, il giardino che riecheggia la bellezza del cosmo, la sacrestia, la sala capitolare dove le suore leggevano e apprendevano le regole dell’ordine monastico, la sala della priora che ancora mostra alle pareti le ceroplastiche con santi e bambinelli fatte dalle suore.
Questi luoghi, che la Curia farà diventare museo etno-antropologico e centro di teologia della bellezza, raccontano una storia antica e custodiscono molti segreti che sarà possibile svelare. Il convento, con il suo enorme complesso e la chiesa con una cupola gigantesca, fu costruito tra il 1310 e il 1329 per volere di Benvenuta Magistro Angelo appartenente a una ricca famiglia aristocratica. Nel Quattrocento la struttura, nata come ospizio delle «repentite», è diventata convento per monache di clausura.
Ne ha ospitate tante: in un certo periodo anche 400. La maggior parte provenivano da influenti famiglie nobiliari. Ma non tutte, ricorda la storica Patrizia Sardina, varcavano quelle grate per una libera scelta.
Poche per vocazione, altre per evitare un matrimonio sgradito, alcune per preservare l’eredità patrimoniale di fratelli con un destino già progettato nel segno della ricchezza e del potere.
Il convento fu un punto di snodo di rapporti complessi e di alleanze politiche e sociali.
Il monastero visse per questo in una grande prosperità ma fu anche un luogo in cui si confezionavano medicamenti e cosmetici con le rose coltivate in giardino e si impastavano in una enorme «balata» i dolci resi celebri dalla tradizione e dalla letteratura come le «minne di virgini» (seni di vergini) e il «trionfo di gola».
Quest’arte che sopravvisse fino agli anni Settanta del secolo scorso sarà ripresa dagli chef Peppe e Luigi Giuffré seguendo le antiche ricette delle monache. I dolci rivisitati saranno disponibili in un punto di ristoro del convento che si progetta di aprire interamente. Padre Bucaro prevede interventi per 5 milioni sui beni artistici: il complesso ne conserva molti e di autori importanti come Antonello Gagini e Giovan Battista Ragusa.
Si cercano non solo fondi pubblici ma privati.
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