«Preferirei sottoscrivere una petizione per far studiare di più e meglio le lingue straniere. Senza queste, i nostri giovani rischiano di ritrovarsi in un mercato del lavoro piccolo come l’Italia perché non hanno la possibilità di vendere il loro sapere fuori dai confini del nostro Paese». Giovanni Ventimiglia, palermitano, da quasi vent’anni docente di Filosofia in diverse università della Svizzera, entra a gamba tesa nel dibattito che in questi giorni infiamma l’Italia. Atteggiamento critico il suo nei confronti della lettera-appello sottoscritta da centinaia fra docenti e linguisti per chiedere al governo e al Parlamento di rilanciare lo studio della lingua italiana nelle scuole elementari e medie e porre rimedio alle carenze linguistiche e grammaticali degli studenti universitari. Appassionato della filosofia sin dai banchi del liceo classico (l’Umberto I), Giovanni Ventimiglia l’ha studiata all’Università Cattolica di Milano quando Rettore era quel Giuseppe Lazzati, uno dei padri costituenti. Dal 1998 insegna in Svizzera, prima a Lugano dove dirige l’Istituto di Studi filosofici che ha fondato nel 2003 e poi a Lucerna dove dal 2015 è ordinario di Filosofia teoretica. Professore Ventimiglia, lei non crede che i nostri studenti universitari conoscano poco l’italiano? «Probabilmente è vero che gli italiani scrivono e parlano meno bene rispetto al passato. Io insegno nel Canton Ticino, l’unico luogo fuori dall’Italia in cui si parla italiano. Posso affermare che nelle discipline umanistiche c’è un abisso tra i giovani italiani che vengono in Svizzera a frequentare l’Università e i loro coetanei ticinesi. Sono almeno dieci punti avanti i primi dai secondi. Gli errori grammaticali, lessicali e ortografici non riguardano solo gli studenti italiani. In Germania e in Inghilterra se ne lamentano e la colpa non è, anzitutto, della scuola». Da cosa dipende allora? «La disaffezione alla lettura dipende in larga parte nel mondo dal passaggio dalla cultura scritta a quella “vista e sentita” di cui parlava McLuhan, padre della scienza della comunicazione». Cosa suggerisce? «La poca voglia di leggere dei giovani si può sconfiggere integrando lettura e video, ad esempio. Il video, da cui ormai non si prescinde, deve fungere da mezzo introduttivo ai testi e non sostitutivo. La visione dello show di Benigni sulla Divina Commedia, ad esempio, spinge gli studenti a “leggerla”. La verità è che non si può imporre la lettura a chi è ormai immerso nel video. Bisogna andare a incontrare i ragazzi lì dove loro si appassionano, cioè alla cultura visiva. Il monito alla lettura da solo, suona oggi come una chiamata al raduno degli alpini!». «L’italiano non è l’italiano, è il ragionare» scriveva Sciascia. Lo ha citato a sostegno dell’iniziativa anche il professore Giorgio Ragazzini, uno dei quattro docenti di scuola media e superiore del Gruppo di Firenze promotore della lettera-appello. Lei che ne pensa? «Sono d’accordo e aggiungo a questo proposito che gli studenti italiani non sono abituati alla discussione, intesa come “debate”, ovvero confronto, argomentazione. La scuola italiana, a differenza delle anglosassoni e tedesche, non insegna a discutere. Si fanno soprattutto lezioni frontali e interrogazioni. Per ritornare all’appello di questi giorni, è facile promuovere una petizione per il rilancio di una materia, l’italiano, che professori e docenti conoscono meglio dei propri studenti. Perché non si promuove una petizione per lo studio dell’inglese che invece di solito i docenti conoscono meno bene dei propri studenti?». Ci spieghi meglio. «Ai nostri giovani non manca lo studio della lingua italiana. Come ho detto, il confronto con gli studenti ticinesi lo dimostra. Manca piuttosto lo studio delle lingue straniere. Non solo l’inglese, ma anche il tedesco, il cinese e l’arabo. Senza queste, i nostri giovani rischiano di ritrovarsi in un mercato del lavoro piccolo come l’Italia, perché non hanno la possibilità di vendere il loro sapere fuori dai confini del nostro Paese. Uno Stato in cui la disoccupazione giovanile è al 42 per cento contro il 2 per cento della Svizzera, ad esempio. Ecco perché è fondamentale lo studio delle lingue straniere, per potere essere competitivi». Lingue o non lingue, i nostri studenti se ne vanno lo stesso dall’Italia, e dalla Sicilia in particolare? Perché secondo lei? «Percepiscono che nelle università italiane sono le raccomandazioni il motore e non il merito. La mentalità che il filosofo Jung chiamava “della grande madre mediterranea” comporta che i criteri di scelta dei docenti universitari sia di tipo personalistico e familistico. Ritengo che il professore “a chilometro 0” porti all’azzeramento della qualità accademica. Le università funzionano se i docenti che vi insegnano, sono i migliori da ogni parte del mondo, non i migliori del condominio. E per evitare la cosiddetta fuga di cervelli, bisognerebbe mettere a disposizione dei nostri giovani borse di studio per ricerca o post laurea all’estero a condizione che questi poi ritornino a lavorare in Italia. C’è già chi lo fa, come la Fondazione Zegna. È importante compiere una tappa dei propri studi all’estero». A Lugano lei ha fondato un Istituto di Studi filosofici ed è presidente di una fondazione. Di cosa si occupa? «La fondazione gestisce l’Aristotele College, un “centro profughi per italiani intellettualmente eccellenti” come scherzosamente lo chiamo. Quattro studenti vengono da Palermo, altri da Bari, Roma, Pisa, Padova … Dal 2004, la fondazione si occupa di raccogliere fondi per aiutare soprattutto studenti italiani meritevoli a studiare in Svizzera. Da un paio d’anni vengono stanziati 110 mila euro all’anno per borse di studio».