Non sapevano che fosse un luogo confinato, un ambiente pericoloso dove spesso si sprigionano gas nocivi e tossici nei quali è fondamentale rispettare le procedure di sicurezza come l'uso di attrezzature per la ventilazione, dispositivi di protezione individuale e il monitoraggio continuo della qualità dell'aria. Anche la cartellonistica di avvertimento sulla porta d'ingresso non era stata affissa, un particolare che avrebbe potuto fare la differenza. Sono alcuni degli aspetti più drammatici che emergono dalle testimonianze raccolte dopo l’incidente sul lavoro in cui il 6 maggio hanno perso la vita cinque operai, nell'impianto di sollevamento fognario di Casteldaccia.
Gli indagati, con l’accusa di omicidio colposo plurimo in concorso con l’aggravante della violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, sono Gaetano Rotolo, il direttore dei lavori dell’Amap, che è la società committente; Giovanni Anselmo, l’amministratore unico della Tek di San Cipirello; e Nicolò Di Salvo, contitolare della Quadrifoglio, che aveva ottenuto la commessa da 100 mila euro in subappalto.
Proprio Giuseppe Scavuzzo, che era lì per la Quadrifoglio, aveva riferito agli inquirenti di non sapere come si chiamavano «le mascherine con i filtri laterali che si dovrebbero usare per entrare dentro l’impianto. Non avevamo in dotazione queste mascherine. Non so se c'erano dentro i camion, penso di sì, ma non le ho mai viste».
La tragedia quindi poteva essere evitata? Dai racconti dei sopravvissuti, contenuti nei verbali della polizia e trasmessi alla Procura di Termini Imerese, emergono dettagli che sollevano interrogativi inquietanti. Ed è Giovanni D’Aleo, che quel giorno manovrava l’escavatore per conto della Quadrifoglio, a descrivere i minuti terribili precedenti al disastro. «Vado a pranzo con Scavuzzo al ristorante La Rotonda. Mentre sono lì mi chiama Paolo Sciortino che mi dice “corri corri corri, mureru tutti”. Urlava. Ho lasciato il cibo e io e Scavuzzo siamo scappati verso I'impianto».
L’orrore era continuato: «Arrivati lì - è ancora D’Aleo a parlare - Paolo era fuori che urlava e Giordano e Viola che avevo lasciato a scavare i pozzi insieme a Paolo già dentro l'impianto erano morti. Sento una puzza fortissima, tipo di gas, fognatura, mi copro la bocca con la maglietta ed entro nell’impianto, fino al punto coperto dalla passerella».
L’altro addetto dei mezzi pesanti della Quadrifoglio, Paolo Sciortino, aveva successivamente completato la ricostruzione: «C’era una puzza fortissima come di gas - aveva spiegato ai magistrati -. Sono entrato, ho sceso i primi gradini a sinistra, sulla destra c'è una porta, oltre c’era un pavimento con le grate in ferro (e ho notato che una grata era tolta, proprio in direzione della vasca) e mi sono fermato lì, sopra la grata, da dove ho visto Alsazia a pancia in giù disteso a terra sotto di me, dove c'è la base in cemento, Giordano era sempre sulla base di cemento, con la mano penzoloni verso la vasca (forse per recuperare qualcuno che era caduto lì dentro) e poi ho visto Viola scendere, girarsi, guardarmi, fare una mossa come per non cadere e poi cadere sempre sul pianerottolo. Non ho visto altre persone, Ho notato solo i vestiti dentro la dentro la vasca che credo fossero di Miraglia, perché aveva i pantaloni arancioni con le strisce catarifrangenti».
Epifanio Alsazia, 71 anni; Ignazio Giordano, 59 anni; Roberto Raneri, 51 anni; Giuseppe Miraglia 47 anni, e l’impiegato interinale dell’Amap, Giuseppe La Barbera di 28 anni, erano arrivati per svolgere un intervento di manutenzione. In pochi secondi, però, sono stati avvelenati da una bolla di gas di acido solfidrico che si è sviluppata dalla decomposizione dei liquami. In un attimo l’aria si era trasformata in veleno, saturando lo spazio e non lasciando loro alcuna via di scampo.
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