Giorno più, giorno meno, dieci anni dopo il blitz «Perseo» del dicembre 2008, che portò a 99 fermi poi trasformati in arresti, a dicembre 2018 finirono in carcere 49 persone, coinvolte nell’operazione denominata Nuova Cupola o Cupola 2.0. In entrambi i casi i carabinieri si mossero in base a un provvedimento di fermo da parte della Dda, a sottolineare l’urgenza di agire immediatamente, per impedire agli uomini delle cosche della città e della provincia di Palermo di commettere altri reati, omicidi e non solo. In Cupola 2.0 altre sette persone vennero individuate poco più di un mese dopo, grazie al pentimento-lampo di due boss di primo piano come Francesco Colletti, di Villabate (Palermo) e Filippo Salvatore Bisconti, di Belmonte Mezzagno. Il 3 dicembre 2020 la stangata con circa 4 secoli di carcere (la procura aveva chiesto 700 anni): 46 condanne e 9 assolti; un imputato è deceduto durante le fasi del processo. Tra i condannati Leandro Greco, allora nemmeno trentenne - nipote di Michele Greco, il Papa di Ciaculli - e che oggi si è visto sequestrare il suo tesoro milionario tra imprese e rapporti finanziari. Con i due blitz i carabinieri avevano fermato per due volte, a dieci anni di distanza, i tentativi di ricostituire la commissione di Cosa nostra, l’organo di vertice della mafia, un tempo guidata proprio da Michele Greco e poi da Totò Riina, il «dittatore» che di fatto, sebbene detenuto, l’aveva retta fino al momento della morte, avvenuta il 17 novembre 2017. Il fatto che l’anziano capo di Corleone (Palermo) fosse ancora vivo e vegeto, nel 2008, era stato un freno alle trattative per rimettere in piedi il «direttivo» incaricato di valutare e decidere omicidi, delitti eccellenti, nuove possibili stragi (a cui si faceva pure riferimento indiretto, nelle intercettazioni, quando si parlava di «cose gravi»). Di fatto, per il rispetto e il timore che Riina incuteva anche se sepolto dagli ergastoli, già prima del maxifermo del 16 dicembre di dodici anni fa era abortito il primo tentativo, condotto da Benedetto Capizzi, capo del mandamento di Villagrazia, di imporsi al vertice. La causa, il dissenso di chi sosteneva che fosse comunque indispensabile, anche dalle carceri e dal 41 bis più profondo, il consenso del «capo dei capi». Nel 2018 invece la situazione era ben definita, perchè il 29 maggio di quell’anno i capi dei principali mandamenti si erano riuniti in una villa della periferia di Palermo, collocata fra le borgate collinari che sorgono ai piedi di Baida, del monte Cuccio e di Bellolampo. Il summit - tenuto con mille accorgimenti, in un luogo che nemmeno i pentiti erano riusciti con certezza a individuare - aveva portato a un accordo: il compito di cercare di salvare il salvabile e di tenere insieme un’organizzazione che aveva fatto dell’unità e della compattezza la propria dirompente forza criminale, era stato affidato a Settimo Mineo, capo di Pagliarelli, condannato a 16 anni. Un uomo quasi ottantenne, nel momento dell’arresto, e che poi - in tempi di Covid - ha più volte chiesto, invano, la scarcerazione per il rischio di contagiarsi in carcere. Apparentemente modesto, fratello di un uomo assassinato negli anni ‘80, alla vigilia della guerra di mafia scatenata dai Corleonesi, Mineo era stato graziato e poi, con la sua fedeltà e col massimo rispetto delle regole, era salito di grado nelle gerarchie mafiose e nella considerazione degli altri capi. Fino a essere considerato l’unico che potesse, per carisma, capacità di lavorare nell’interesse comune, età avanzata, tradizione e agganci col passato, capitanare il tentativo della mafia di risalire. L’avventura si era di fatto conclusa col blitz del 4 dicembre 2018. Le indagini coordinate dalla Dda di Palermo avevano visto emergere anche un altro personaggio che era il contraltare di Mineo, il giovane Leandro Greco, che aveva scelto di farsi chiamare - per darsi un contegno, una dignità criminale, quasi una legittimazione all’esercizio del potere - Michele, come il nonno, proprio il boss di Ciaculli. Era lui a gestire i rapporti con i paesi della provincia, lui che pretendeva la «delega» dei «paesani» per esprimere le loro posizioni. Voleva, come si dice in dialetto e nel gergo di Cosa nostra, «acchianarsene», salire i gradini del potere mafioso, saltando i passaggi intermedi per effetto del cognome pesante e della sua venerazione nei confronti della memoria del nonno. Pur sempre di un giovane però si trattava, dato che Greco, al momento dell’arresto, nel lasciare la caserma Carini, si abbassò a fare un gesto non certo da capo dei capi, distribuendo baci a distanza ai familiari che assistevano alla sua traduzione in carcere. Altri capi di rilievo il boss di Porta Nuova, Gregorio Di Giovanni; il responsabile della zona opposta della città, Tommaso Natale, Calogero Lo Piccolo (27 anni al figlio di Salvatore e fratello di Sandro), poi gli altri capi dei mandamenti di San Lorenzo, Resuttana, Palermo Centro, Noce, Cruillas: Erasmo Lo Bello, Rubens D’Agostino, Gaspare Rizzuto, Giuseppe Serio, Salvatore Sciarabba, Giovanni Salerno e Francesco Caponnetto. E ancora il boss di corso Calatafimi, Filippo Annatelli, Gaetano Leto, Salvatore Pispicia e Salvatore Sorrentino, delle zone vicine, Pagliarelli, Mezzomonreale. Tutti attorno a un tavolo per spartirsi un potere che però per Cosa nostra è molto diversa da quella di trent’anni fa, per i colpi subiti da magistratura, forze dell’ordine, pentimenti e reazione della società civile. Nel processo di quasi quattro anni fa erano stati infatti parte civile 20 imprenditori, 5 associazioni antiracket, i Comuni di Villabate, Ficarazzi e Misilmeri (Palermo). E la giustizia battè un altro colpo durissimo, quella volta lungo 400 anni.