Disse di no alle pratiche agricole fasulle, ecco perché venne ucciso il sindacalista di Caccamo Mico Geraci
Mico Geraci era diventato troppo ingombrante, tanto da ostacolare gli affari di Cosa nostra. E in più ambiva alla poltrona di sindaco di Caccamo, una condizione inaccettabile per i padrini della zona che non volevano intaccato il proprio potere. Ma, oltre agli interessi politici, ne esistevano altri ben più concreti, che avevano convinto i boss della necessità di sbarazzarsi del sindacalista della Uil, assassinato l’8 ottobre del 1998 davanti alla sua abitazione del paese madonita. Dava fastidio perché nei comizi aveva denunciato diverse anomalie nella gestione del piano regolatore e dell’acqua pubblica da parte dell’amministrazione comunale di Caccamo, che poi era stata sciolta per mafia. Ma dava ancora più fastidio perché bloccava le domande che servivano a ricevere i rimborsi per le aziende agricole. Per questo motivo, oltre che per la sua decisione di candidarsi, gli uomini d’onore avevano messo Geraci nel mirino: era insopportabile il fatto che avesse rifiutato più volte le pratiche per ottenere i contributi che alcuni di loro - ufficialmente agricoltori - avevano presentato al patronato da lui diretto. In tanti si erano infuriati e avevano chiesto al capo del mandamento, Nino Giuffrè - poi diventato collaboratore di giustizia - di intervenire in maniera decisa ma lui si era rifiutato di compiere azioni eclatanti e quindi era stato scavalcato. Gli stessi che si erano lamentati, infatti, lo avevano «posato» ed erano andati direttamente da Bernardo Provenzano, che a Caccamo aveva una delle sue roccaforti: e u Zu Binu - per uccidere Geraci - si era rivolto a Salvatore e Pietro Rinella che, all’epoca, erano al vertice della famiglia mafiosa di Trabia. «Il discorso era a mia insaputa - è la testimonianza di Giuffrè - perché facilmente loro sapevano che ero stato contro all’uccisione di Geraci. Il nostro è un piccolo paese, ci conosciamo tutti e poi fra l’altro con Geraci abbiamo svolto dei lavori assieme e fatto dei corsi in campagna, poi successivamente quando lui faceva il politico era consigliere, era assessore, cioè quando avevo bisogno di qualche cosa si metteva sempre a disposizione. Non c’era bisogno di ricorrere a... Sono perfettamente sicuro che io senza presunzione, in questa circostanza, l’avessi chiamato e di qualche cosa di cui si poteva avere di bisogno, lui avrebbe fatto la cortesia, cioè senza bisogno di arrivare a questi discorsi che sono sempre traumatizzanti per un piccolo centro come il nostro e lasciano sempre il segno, lasciano odio». Secondo il pentito sarebbero stati altri due componenti della famiglia mafiosa di Caccamo, Giorgio Liberto e Salvatore Puccio, a persuadere Provenzano che Geraci doveva essere eliminato perché stava facendo perdere molti soldi a Cosa nostra: «Vi erano delle persone, anche della mia famiglia, che non erano contente dell’operato di Geraci - è ancora Giuffrè a raccontare ai magistrati -. Tra questi ricordo i fratelli Liberto, in modo particolare Giorgio, che si lamentava che non gli aveva fatto prendere dei contributi». E lo stesso aveva fatto anche Puccio, il quale non era più andato nell’ufficio di Geraci quando le sue pratiche non erano state accettate. «Liberto mi dice ancora una volta che la situazione di Domenico Geraci va a precipitare - aveva svelato ancora l’ex boss di Caccamo - perché continuava sempre impavido nell’andare parlando apertamente e in pubblico contro di noi ma che addirittura aveva messo il bastone tra le ruote a determinate pratiche di finanziamenti di contributi in suo favore e, se ricordo bene, anche di Puccio, dicendo che aveva superato ogni limite».