Non solo la denuncia, ma nei confronti della mafia occorre anche una netta «presa di distanze». Al convegno di Palermo sulle stragi del 1993, monsignor Antonino Raspanti, vescovo di Acireale, torna a chiudere ogni dialogo con gli esponenti di Cosa nostra. Ricorda che già nell’ottobre 1982 la conferenza dei vescovi siciliani espresse una condannata che equivale a una scomunica. Nel 1993 si aggiunse l’invettiva di Giovanni Paolo II contro i mafiosi e due anni dopo la mafia uccise don Pino Puglisi. Di recente vescovi e parroci hanno condannato gli «inchini» dei santi in processione e le soste davanti alle case di mafiosi. Lo stesso monsignor Raspanti ha emesso qualche anno fa un decreto che nega i funerali religiosi (nel suo caso è accaduto tre volte) a persone condannate per reati di mafia morte senza chiedere perdono: per loro il funerale diventa così un momento di ostentazione del potere. La negazione dei funerali è un messaggio, dice, che «sta nei binari dell’annuncio evangelico» e si allinea ai giudizi della magistratura, della cultura, dell’informazione. Del resto, il rifiuto dei funerali religiosi viene proprio da un personaggio di grande spessore criminale come Matteo Messina Denaro che non ha voluto celebrazioni religiose perché fatte da «uomini immondi che vivono nell’odio e nel peccato». Le scelte di tanti uomini di Chiesa nei confronti della mafia rientra, secondo il vescovo, nella «prassi ecclesiale» di non estraniarsi dalla società civile e di mantenere il «magistero di custode della fede». E la mafia è fuori dal messaggio evangelico.