La corte d’assise d’appello di Caltanissetta ha confermato la condanna all’ergastolo del boss Matteo Messina Denaro, accusato di essere stato uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Il collegio, presieduto dal giudice Maria Carmela Giannazzo, ha accolto la richiesta avanzata dai procuratori generali Antonino Patti, Fabiola Furnari e Gaetano Bono. Il padrino, difeso dall’avvocato d’ufficio Adriana Vella, ha rinunciato a collegarsi dal carcere in cui è detenuto per ascoltare il dispositivo.
Le indagini fra ombre e misteri
Ergastolo dal 41 bis. Un processo e una condanna pesanti, ancora più pesanti per Matteo Messina Denaro, perché subiti da detenuto dopo una trentennale latitanza. Sulle stragi del ‘92 le indagini non si sono mai fermate e questi 31 anni sono stati costellati, tra ombre e misteri, da diversi processi alla ricerca della verità. Alla sbarra anche Matteo Messina Denaro, già condannato per le stragi del ‘Continentè del 1993, è ritenuto uno dei mandanti degli attentati in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli otto agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Emanuela Loi e Eddie Walter Cosina. Catturato in una clinica di Palermo il 16 gennaio di quest’anno, non si mai presentato in udienza. L’ex superlatitante non era mai stato processato per le bombe del ‘92. In primo grado è stato condannato all’ergastolo. Il Pg di Caltanissetta, Antonino Patti, aveva chiesto la conferma della sentenza. E a 31 anni dalla strage di via D’Amelio ecco la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta che ha inflitto il carcere a vita. Un processo iniziato quando il pupillo di Totò Riina era ancora latitante e dopo la cattura quella sedia del supercarcere di L’Aquila, dove è detenuto al 41 bis, è rimasta sempre vuota.
La strategia stragista
Secondo la procura di Caltanissetta «la decisione di uccidere i due giudici non fu un fatto isolato, ma ben piazzato al centro di una strategia stragista a cui Matteo Messina Denaro ha partecipato con consapevolezza dando un consenso, una disponibilità totale della propria persona, dei propri uomini, del proprio territorio, delle famiglie trapanesi al piano di Riina che ne fu così rafforzato e che consentì alla follia criminale del capo di Cosa nostra di continuare nel proprio intento: anzi, più che di consenso si potrebbe parlare di totale dedizione alla causa corleonese». Quando venne emessa la sentenza di primo grado, il 21 ottobre 2020, Messina Denaro era ancora latitante. Nel corso della sua requisitoria, al processo d’appello, il Pg Antonino Patti, lo scorso 27 ottobre, è tornato a chiedere l’ergastolo. «L’accusa che si muove a Matteo Messina Denaro - ha detto il Pg - è di avere deliberato, insieme ad altri mafiosi regionali, che rivestivano uguale carica, le stragi. Quindi ci occupiamo di un mandante, non di un esecutore». Ha poi aggiunto che «la cosiddetta missione romana risale alla fine del febbraio del ‘92, quando Totò Riina inviò nella capitale un ristretto gruppo di uomini d’onore guidato da Messina Denaro e Giuseppe Graviano: erano i componenti della cosiddetta Supercosa, la risposta del boss corleonese alla Superprocura, cioè la Direzione nazionale antimafia che era stata inventata da Falcone. Il magistrato poi ucciso a Capaci era l’obiettivo della missione romana, insieme a Maurizio Costanzo. «Riina a Roma aveva mandato le persone più importanti, come Giuseppe Graviano, che è un capomandamento, così come Matteo Messina Denaro - ha detto Patti - non è affatto vero, poi, che nel sestetto romano c’era gente che non sapeva mettere mano sugli esplosivi. Riina a Falcone lo avrebbe ucciso ovunque, anche sulla Luna. Lo dice lui stesso in un’intercettazione». Nell’arco di pochi giorni Totò Riina cambiò idea e ordinò improvvisamente ai suoi di rientrare in Sicilia dove avevano trovato «cose più grosse».
I complimenti del boss al legale
Cinque gli avvocati che si sono avvicendati durante il dibattimento nel collegio difensivo durante il processo di secondo grado. Messina Denaro inizialmente, quando era ancora latitante, era assistito dagli avvocati d’ufficio Salvatore Baglio e Giovanni Pace. Successivamente, dal carcere, l’ex superlatitante nominò quale legale di sua fiducia, sua nipote, Lorenza Guttadauro - figlia della sorella Rosetta, finita in carcere - la quale, alla vigilia dell’arringa, ha rinunciato al mandato. La corte ha poi nominato un avvocato di Canicattì, Calogero Montante, che avrebbe ricevuto delle minacce. Successivamente anche lui ha rinunciato a difendere il boss. Poi è stata la volta di Adriana Vella, anche lei nominata d’ufficio. Ed è stata proprio l’avvocato Adriana Vella, 43 anni, ad aver preso le difese del capomafia sostenendo la sua innocenza. La legale dell’ex superlatitante, nel corso della sua arringa, ha parlato, davanti alla corte presieduta da Maria Carmela Giannazzo, per quasi quattro ore sostenendo l’innocenza di Messina Denaro in quanto «mero soldato» che non poteva avere avuto un ruolo nelle stragi. Vella ha sostenuto che il suo assistito non era il reggente di Cosa nostra del trapanese e che «in tutte le riunioni che si svolsero in cui venne deciso il piano stragista non era presente e quindi non diede il suo assenso alla stagione delle bombe». E ne aveva chiesto «l’assoluzione per non aver commesso i fatti». A lei il telegramma con le congratulazioni del boss: «Del poco che so mi è piaciuta la sua arringa. Buona vita».