«Mi ucciderà materialmente la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere. La mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno». La confidenza di Paolo Borsellino alla moglie Agnese era il frutto di un’intuizione che ha trovato spazio nei tanti processi per la strage di via d’Amelio e in quello che gli stessi giudici hanno descritto come il «più grande depistaggio della storia d’Italia».
In via d’Amelio c’era in effetti l’ombra di una «partecipazione morale e materiale di altri soggetti (diversi da Cosa nostra)». E c’erano anche «gruppi di potere interessati all’eliminazione» del magistrato.
Lo hanno scritto i giudici di Caltanissetta nella sentenza sul depistaggio con la quale il 12 luglio 2022 hanno prescritto due investigatori della polizia, Mario Bo e Fabrizio Mattei, accusati di favoreggiamento, e assolto un terzo poliziotto, Michele Ribaudo.
Tutti e tre facevano parte della squadra che indagava sulle stragi Falcone e Borsellino. È la squadra guidata da Arnaldo La Barbera che aveva anche creato il falso pentito Vincenzo Scarantino e lo avrebbe indotto a lanciare accuse inventate di sana pianta. Sette persone furono condannate all’ergastolo e poi scagionate e infine scarcerate quando il vero pentito Gaspare Spatuzza ha ricostruito un diverso scenario della strage.
In quell’indagine l’ombra dei servizi segreti è affiorata in vari episodi. Gli 007 sono arrivati tra i primi nel luogo dell’attentato e hanno subito messo le mani sulla borsa in cui Borsellino teneva un’agenda rossa con le annotazioni sulle sue indagini. L’agenda non è stata più ritrovata. E la sua sparizione, sostengono i giudici di Caltanissetta, è un aspetto simbolico di una «verità nascosta o meglio non completamente disvelata».
In questa storia i servizi non dovevano metterci neppure il naso ma la loro irruzione avrebbe avuto un avallo autorevole non solo da La Barbera ma anche dal procuratore di Caltanissetta del tempo, Giovanni Tinebra. Entrambi sono morti. Manca quindi la loro spiegazione.
Ma nessun contributo è arrivato da altre fonti, neppure da quei magistrati che non hanno colto l’impostura di Scarantino. E questo è stato più volte e criticamente sottolineato dalla figlia di Borsellino, Fiammetta, secondo la quale il depistaggio è andato molto avanti anche a causa di troppe distrazioni.
È quello che sostengono anche i giudici di Caltanissetta: «Tra amnesia generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni (...) e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite da risultanze oggettive e da inspiegabili incongruenze logiche, l’accertamento istruttorio sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative».
A cosa servivano reticenze, bugie e depistaggi? La sentenza chiama ancora in causa La Barbera e la sua ansia di carriera. Ricostruisce poi il clima ostile in cui Borsellino si muoveva a palazzo di giustizia, lo scontro con il procuratore del tempo Pietro Giammanco esploso sulla gestione di un’indagine del Ros su mafia appalti e il «tavolino» che decideva a chi assegnarli. In questo oscuro contesto la finalità principale del depistaggio, sostiene nella memoria di appello la Procura di Caltanissetta, era quella di «occultare le responsabilità esterne» a Cosa nostra. Ancora una volta, come nel caso Falcone, lo sguardo si perde però nella terra di nessuno.
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