«Gli elementi probatori analizzati finora non consentono di ritenere - al di là di ogni dubbio ragionevole - che Arnaldo La Barbera fosse concorrente esterno all’associazione mafiosa o che l’abbia agevolata favorendo il perdurare dell’occultamento delle convergenze dell’associazione con soggetti o gruppi di potere cointeressati all’eliminazione di Paolo Borsellino e dei poliziotti della sua scorta». Lo scrivono i giudici di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio in riferimento all’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, ritenuto dall’accusa il «motore» dell’inquinamento dell’inchiesta. «Non vi è dubbio che La Barbera abbia agito anche per finalità di carriera e - dopo essere stato messo da parte alla fine del 1992 in corrispondenza con l’arresto di Contrada - una volta rientrato nel circuito, abbia fatto letteralmente carte false per poter mantenere e accrescere la propria posizione all’interno della polizia di Stato e nell’establishment del tempo», spiegano. Sui maltrattamenti che il falso pentito Vincenzo Scarantino riferì di aver subito nel carcere di Pianosa dalla polizia che voleva costringerlo ad accusarsi della strage e accusare innocenti «non può ritenersi - aggiungono - che gli stessi fossero riconducibili a disposizione impartite da La Barbera o da Mario Bo (tra gli imputati del depistaggio, ndr)». «Se può dirsi inoltre anche logicamente certo che, nell’ottica di un pressing investigativo eufemisticamente duro e spregiudicato (come si è visto, tradottosi anche nella fabbricazione di falsi collaboratori di giustizia come Andriotta, al fine di dare la spallata alle resistenze di Scarantino), la sua labilità psicologica sia stata utilizzata dagli investigatori per convincerlo a collaborare (con ogni mezzo), non può però ritenersi provato che le condotte di cui Scarantino fu vittima a Pianosa siano ascrivibili alla longa manus di Arnaldo La Barbera», proseguono. «Però è tristemente e altamente probabile che quest’ultimo ne fosse quantomeno a conoscenza», concludono i giudici che parlano di una «disgraziata e devastante gestione penitenziaria che ha realizzato una sospensione dei principi dello Stato di diritto e delle garanzie costituzionali che non può che suscitare indignazione».