Quindici anni di processo, una coda di altri cinque per dichiarare l’ineseguibilità della sentenza e ora, a quasi trent'anni dall’arresto per collusioni con la mafia (avvenuto il 24 dicembre 1992), la questione risarcimento, che proprio oggi è arrivata alla quinta puntata. A 92 anni, Bruno Contrada chiede ancora di essere ripagato dallo Stato e la prima sezione della Corte d’appello di Palermo ha trattato stamattina la richiesta avanzata dall’ex 007. Il legale dell’ex superpoliziotto, l’avvocato Stefano Giordano, ha insistito nei motivi di ricorso, il sostituto procuratore generale Carlo Marzella si è opposto. Il collegio presieduto da Adriana Piras, a latere Mario Conte, relatrice Luisa Anna Cattina, si è riservato la decisione, che verrà depositata nei prossimi giorni. La questione è complessa e deve essere valutata sulla base del principio di diritto fissato l’estate scorsa dalla terza sezione della Suprema Corte, cioè attenendosi a criteri molto stringenti. Tutto parte da una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che, su ricorso presentato sempre dall’avvocato Giordano, aveva dichiarato «ineseguibile» la sentenza definitiva emessa dalla magistratura italiana, la condanna a 10 anni di Contrada per concorso esterno in associazione mafiosa. Questo perché il reato era - nel momento in cui Contrada commise i fatti alla base del suo processo - indeterminato e indefinito, cosa avvenuta solo nel 1994 con la sentenza Demitry. Una volta recepita dai giudici del nostro Paese, la «ineseguibilità» (concetto dal significato particolare, visto che Contrada ha scontato la pena fra carcere e detenzione domiciliare) aveva portato l’ex condannato a seguire l’unica strada percorribile: quella del risarcimento, la cosiddetta riparazione per ingiusta detenzione. Il giudizio ha avuto fasi alterne, in netto contrasto fra di loro: la seconda sezione della Corte d’appello di Palermo aveva liquidato 667 mila euro, la Cassazione aveva annullato una prima volta con rinvio, accogliendo il ricorso del pg e rinviando gli atti nel capoluogo siciliano, dove la terza sezione della Corte aveva negato qualsiasi risarcimento, sostenendo che Contrada avesse «dato causa», col proprio comportamento, al processo e alla condanna. Contro la decisione aveva fatto ricorso a quel punto l’avvocato Giordano e la Cassazione aveva annullato per la seconda volta. I giudici romani avevano però fissato un principio di diritto, sostenendo che la Corte palermitana dovrà adesso valutare se lo stesso imputato abbia contribuito alla propria condanna con «dolo o colpa grave, causa ostativa alla riparazione», ma questo «in relazione non già alla fattispecie di reato di partecipazione all’associazione mafiosa, mai contestata e rispetto alla quale il ricorrente non si è mai difeso nel processo, bensì rispetto a condotte sinergiche al favoreggiamento sia nelle singole vicende accertate, sia dell’associazione mafiosa». Quindi non concorso esterno, perché non sufficientemente definito all’epoca, né partecipazione piena. Ed episodi di «disponibilità piena», di contributo in favore dell’associazione mafiosa, secondo i giudici di merito che lo condannarono, ne erano emersi parecchi. «A mero titolo esemplificativo», aveva scritto ancora la terza sezione della Cassazione, nella decisione del luglio scorso, che Contrada sarebbe stato responsabile della «omessa indicazione in un incontro tra il vicequestore Boris Giuliano e l’avvocato Ambrosoli, dell’allontanamento dall’Italia di John Gambino, esponente di famiglie mafiose, coinvolto nel finto sequestro di Michele Sindona e il tentativo di condizionare l’operato del commissario Renato Gentile, oltre altri episodi accertati dai quali» la Corte d’appello aveva «tratto il convincimento della volontaria e consapevole messa a disposizione del ricorrente a favorire, proteggere e rafforzare l’attività del sodalizio criminoso mafioso».