I palermitani arrestati a Bari: storia della famiglia Buscemi, di un delitto e di una mongolfiera
Le due persone arrestate a Palermo, nell'ambito dell'operazione condotta dalla procura di Bari, sono i genitori di Salvatore Buscemi, palermitano di 41 anni, da tempo residente in Puglia, arrestato con l'accusa di essere al vertice dell'organizzazione mafiosa di Valenzano, comune a una decina di chilometri da Bari. Il 41enne è stato arrestato a Bari, i genitori, invece, si trovavano in vacanza a Palermo e sono stati catturati nel capoluogo siciliano. Si tratta di Giuseppe Buscemi di 72 anni e Antonia Stramaglia di 64. Giuseppe Buscemi si trasferì in Puglia tanto tempo fa. Secondo alcuni articoli rintracciabili on line, Giuseppe Buscemi venne mandato in Puglia al soggiorno obbligato, ma fu lui stesso a smentirlo con una lettera inviata alla Gazzetta del Mezzogiorno, il giornale di Bari, e pubblicata on line il 29 agosto del 2016. La lettera venne scritta per intervenire su un episodio che destò scalpore nel capoluogo pugliese: il volo di una mongolfiera con la seguente scritta: «Famiglia Buscemi, Viva San Michele, Viva San Rocco». L'episodio risale all'agosto del 2016. la mongolfiera di Buscemi era una delle tante lanciate in occasione della festa patronale di San Rocco, a Valenzano. Un'esibizione di potenza mafiosa, secondo molti, al punto che il caso finì in Parlamento per un'interrogazione di un esponente barese del Pd e fece partire un'inchiesta amministrativa che poco più di un anno dopo portò allo scioglimento del Consiglio comunale di Valenzano per infiltrazioni mafiose. Nella sua lettera del 29 agosto, tuttavia, Giuseppe Buscemi disse che la mongolfiera era solo un gesto di devozione. Leggiamo alcuni passi della lettera. «Quella mongolfiera - scrisse Giuseppe Buscemi - è stata semplicemente frutto di una sentita devozione familiare verso San Rocco, il Santo Protettore di Valenzano, e verso San Michele, di cui mio figlio Michele era onorato di portare il nome, alla stregua di altri componenti della mia famiglia». «Era onorato», scrive Giuseppe Buscemi, perché in effetti nel 2016 Michele Buscemi non era più in vita. Era stato ucciso, appena 31enne, il 13 gennaio del 2008. «Un pregiudicato di origini palermitane è stato ucciso a colpi di pistola a Valenzano, un paese a dieci chilometri da Bari. Michele Buscemi aveva 31 anni», scrisse il Giornale di Sicilia il 15 gennaio 2008. «La vittima - raccontò il nostro quotidiano - aveva numerosi precedenti penali per traffico di stupefacenti ed era imputato per l’omicidio di Stefano Camposeo, un pregiudicato ucciso proprio a Valenzano il 10 aprile del 1999. Per quel delitto, giusto l’11 gennaio scorso, la Dda di Bari aveva chiesto per Buscemi la condanna a ventisette anni di carcere. Secondo l’accusa Buscemi, nel 2002, quando fu fermato per l’omicidio, rivelò al compagno di cella Piero Losurdo (poi divenuto collaboratore di giustizia) di essere stato lui ad uccidere Camposeo». La mongolfiera, insomma, era un tributo al figlio morto, come del resto scrive lo stesso Giuseppe Buscemi nella lettera del 2016, fornendo anche una propria versione di quell'omicidio di otto anni e mezzo prima. «La sera del 16 agosto la mongolfiera a nome della mia famiglia - scrive Giuseppe Buscemi - non è stata l'unica, bensì la quarta di altre dedicate ad altrettante famiglie (non "saltate agli onori" della cronaca). Inoltre, tale forma di devozione religiosa è stata ripetuta anche negli anni scorsi a fronte di un esborso economico esiguo, in ricordo di mio figlio ucciso a seguito di un banale litigio». Del resto, ad allontanare i sospetti di mafiosità, nelle intenzioni i Buscemi, arrivò anche il prosieguo della lettera: «Io Giuseppe Buscemi sono nato a Palermo nel 1950. Sono il quinto di dieci fratelli, di cui quattro maschi e sei femmine. Tutti i membri della mia famiglia sono soggetti assolutamente incensurati, fatta eccezione per il sottoscritto, condannato per un furto e un tentato furto, fatti risalenti agli anni Settanta, e mai coinvolto in processi di criminalità organizzata, compreso mio fratello Salvatore, nato a Palermo nel 1947 e deceduto nel lontano 1976. È evidente che mio fratello Salvatore, morto nel 1976, non ha nulla a che vedere con il Salvatore Buscemi indicato dalla stampa come uno dei capi del mandamento di Boccadifalco o Passo di Rigano. Quanto poi a me, non sono mai stato sottoposto ad alcun "soggiorno obbligato" a Valenzano o altrove, come erroneamente riportato. La verità è che mi sono recato a Valenzano di mia volontà e per motivi di lavoro nell'oramai lontano 1974, ove conobbi una giovanissima ragazza, Antonia Stramaglia, con la quale mi sono unito in matrimonio l'anno successivo. Da questa unione sono nati quattro figli, di cui tre maschi e una femmina. Dopo un periodo trascorso a Palermo, ho deciso nel 1983 di trasferirmi definitivamente con tutta la famiglia a Valenzano, dove ho svolto sempre una regolare attività lavorativa fino al gennaio di quest'anno, negli ultimi 15 anni alle dipendenze della Matarrese Spa con la mansione di operaio qualificato. Ora, sono in pensione. Ho sentito il bisogno di mettere le cose in chiaro e fare queste precisazioni per salvaguardare il mio nome e soprattutto quello dei miei giovanissimi nipoti, dal rischio di essere etichettati come membri di una famiglia "mafiosa" con tutte le conseguenze che ciò determina nel contesto scolastico e sociale». Adesso però è stato arrestato e con lui la moglie e il figlio. Salvatore Buscemi, secondo l'ordinanza di custodia cautelare, era «il capo promotore e organizzatore dell'associazione mafiosa, con funzioni di comando assoluto ed esercizio della potestà direttiva e di controllo in ordine allo svolgimento della vita associativa e al perseguimento degli scopi del sodalizio». Buscemi jr è «affiliato - scrive il gip - con grado camorristico V (vangelo) a Ottavio Di Cillo (grado camorristico VI - tre quartino) a sua volta direttamente affiliato al clan Parisi di Bari». Buscemi dirigeva e coordinava tutte le attività criminali del clan di Valenzano, quali il traffico di stupefacenti, recupero crediti con minacce, prestiti usurai, estorsione con imposizione delle slot-machine negli esercizi commerciali, supervisione della gestione degli interessi economici del clan tramite il riciclaggio ed impiego degli introiti di illecita provenienza.