Palermo

Venerdì 22 Novembre 2024

Palermo, Lo Presti e Di Giovanni negano le accuse: «Viviamo del nostro lavoro»

Tommaso Lo Presti (a sinistra) e Giuseppe Di Giovanni

Ha detto che vive «solo di lavoro». Che non è mai stato chiamato «il lungo» dalle persone che conosceva o frequentava casualmente, che ci sono tanti Masino Lo Presti nella sua cerchia familiare per cui non si può essere certi che quando si riferiscono a «Masino» come esponente di vertice di Cosa nostra significa che parlino di lui: Tommaso Lo Presti si è difeso così, davanti al gip Filippo Serio, assistito dai suoi avvocati, Giovanni Castronovo e Simona La Verde. Una linea scelta anche da Giuseppe Di Giovanni, l’altro presunto triumviro di Porta Nuova (il terzo era il consuocero Giuseppe Incontrera, assassinato giovedì della scorsa settimana alla Zisa): lui ha detto che si occupa solo della sua attività ittica, e che i rapporti con i ristoratori erano legati al normale ambito lavorativo e non alle estorsioni. Di Giovanni, pure lui assistito dagli avvocati Castronovo e La Verde, ha quindi respinto ogni ricostruzione che lo dipinge come un capo del mandamento. Per entrambi i legali, al termine del confronto con il giudice, hanno chiesto la non convalida del fermo, emesso mercoledì dalla Dda e con cui sono stati portati in carcere, e di respingere la richiesta di ordine di custodia cautelare che, sempre la Procura, aveva depositato il 22 giugno all’ufficio del gip, a conclusione di un’indagine condotta dal Nucleo investigativo dei carabinieri. Lo Presti, davanti al gip che ha interrogato a partire dalle 13,30 - nel carcere di Pagliarelli - i fermati nel blitz scattato in tutta fretta dopo il delitto di Incontrera, ha ricordato di essere stato scarcerato nel febbraio 2020 in pieno lockdown e di aver iniziato un’attività lavorativa nel settore della vendita di bevande alcoliche e mozzarelle, che si spostava a piedi o su una bici elettrica dato che gli è stata ritirata la patente per i suoi precedenti penali, e di essersi dedicato solo al lavoro. I suoi rapporti con Giuseppe Di Giovanni erano dettati solo da motivi di cortesia e di parentela, essendo figli di fratello e sorella. Di Giovanni ha sostenuto davanti al gip di non aver mai chiesto il «pizzo» ai ristoratori di cui si parla nell’ordinanza, ma che aveva chiesto al consuocero Incontrera di intervenire perché gli fosse pagato il dovuto: per la sua attività di vendita di pesce, per cui si reca ogni mattina a Porticello con il permesso del tribunale di sorveglianza, vantava crediti che appunto intendeva riscuotere per la sua attività commerciale. I soldi di cui si parla non erano il frutto del traffico di droga ma regali in busta raccolti in occasione di matrimoni o battesimi a cui era invitato. La droga? Gli ha sempre «fatto schifo», anche perché avendo figli lo vedeva come un pericolo.

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