Tante condanne, vari filoni processuali e una verità ancora parziale. Le sentenze sulla stage di Capaci hanno illuminato l’area criminale operativa e organizzativa dell’attentato fino alla più recente condanna all’ergastolo di Matteo Messina Denaro, l’ultimo grande latitante di mafia. Ma hanno lasciato nell’ombra i livelli esterni a Cosa nostra: della loro esistenza si parla sin dalle prime mosse investigative. Un «doppio cantiere» lo ha definito Lia Sava, già pm a Caltanissetta e ora procuratore generale a Palermo. È tutta da chiarire ancora la parte svolta, prima e dopo la strage, da apparati investigativi e pezzi dello Stato che avrebbero tenuto aperto un «dialogo» con i boss in vista di una tregua. È l’idea di una «trattativa» che però non ha trovato conforto nella sede processuale. Più chiaro invece l’obiettivo della strage che è stato individuato attorno a tre motivazioni di fondo. Una va riferita al «sentimento di vendetta» dei vertici di Cosa nostra nei confronti di un magistrato che aveva attaccato la mafia con metodi innovativi e ne aveva demolito l'impunità storica con un maxiprocesso che aveva travolto padrini e santuari. L’altra motivazione della strage è stata rintracciata dai giudici nel carattere preventivo dell’attentato: bisognava fermare Falcone che anche nel suo ultimo incarico al ministero della Giustizia continuava a ispirare misure devastanti per il sistema mafioso. La terza motivazione di fondo si ritrova nel progetto di Totò Riina e dei suoi colonnelli di dare un carattere terroristico alla micidiale sfida allo Stato. Il livello operativo della strage del 23 maggio 1992 è stato colpito sin dal primo processo concluso il 26 settembre 1997 con 24 ergastoli e pene inferiori per cinque collaboratori (Salvatore Cancemi, Mario Santo Di Matteo, Calogero Ganci, Gioacchino La Barbera, Giovan Battista Ferrante). In appello si sono aggiunti altri cinque ergastoli ma dopo due annullamenti la Cassazione ha definito i giudizi confermando la responsabilità di Totò Riina, Bernardo Provenzano, Francesco e Giuseppe Madonia, Pippo Calò, Pietro Aglieri e gli altri componenti della «cupola». Altri elementi, che hanno generato altri filoni processuali, sono venuti da Gaspare Spatuzza che ha contribuito a fare luce sulla provenienza dell’esplosivo: sarebbe stato Alfonso «Fifetto» Cannella a fare recuperare il materiale da bombe inesplose durante la seconda guerra mondiale nel mare di Porticello, vicino a Palermo. L’uso dell’esplosivo sarebbe stato deciso come variante spettacolare al piano originario che prevedeva l’uccisione di Falcone a Roma. Un «gruppo di fuoco" era già partito ma venne poi richiamato per ordine di Riina perché a Palermo la strage avrebbe avuto una dimensione ancora più simbolica. Uno dei processi celebrati a Caltanissetta ha messo a fuoco il ruolo di Matteo Messina Denaro che il 21 ottobre 2020 è stato condannato all’ergastolo. Decisivo, secondo i giudici, sarebbe stato il suo sostegno al piano criminale elaborato dagli uomini di Riina. «Intorno alla sua latitanza - aveva detto il pm Gabriele Paci - si è costruita la figura di un mafioso che fa affari e veste Armani. Il processo ci ha restituito invece una figura diversa: uno stragista». Prima della sentenza su Messina Denaro il 21 luglio 2020 la corte d’assise d’appello di Caltanissetta aveva confermato la condanna all’ergastolo di altri quattro imputati - Salvatore «Salvino» Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro e Lorenzo Tinnirello - e l’assoluzione di Vittorio Tutino. Dopo trent'anni la vicenda processuale non è ancora conclusa ma è alle ultime battute.