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Da chirurgo al Civico a boss di Brancaccio: Giuseppe Guttadauro fra bisturi e Cosa nostra

Giuseppe Guttadauro

Medico e boss. Per questo tutti lo chiamano "il dottore". Giuseppe Guttadauro, 73 anni, buona parte dei quali trascorsi in carcere, c'è ricascato: secondo gli investigatori avrebbe continuato attraverso il figlio a seguire gli affari con la mafia da Roma, dove vive dopo l'ultima scarcerazione di 10 anni fa.

Chirurgo all'ospedale Civico di Palermo, nel 1984 (aveva 36 anni) fu arrestato per la prima volta per associazione mafiosa a seguito delle accuse dei collaboratori di giustizia Vincenzo Sinagra e Salvatore Contorno, che lo indicarono come fiancheggiatore del boss Filippo Marchese.

Guttadauro finisce anche nelle maglie del maxiprocesso, per lui una condanna a sei anni e sei mesi. Dieci anni dopo, è il 1994, il medico viene coinvolto nell'operazione Golden Market, "figlia" delle dichiarazioni di Gaspare Mutolo, Giuseppe Marchese e Giovanni Drago, e ancora una condanna al processo: tre anni e sei mesi.

Una volta fuori dal carcere "il dottore" ha ormai un curriculum di tutto rispetto e dopo l'arresto dei capimafia Giuseppe e Filippo Graviano, di Antonino Mangano, di Gaspare Spatuzza e di altri è lui a prendere le redini di Brancaccio, diventandone il boss. Ma nel 2002 arriva un nuovo arresto nel corso dell'operazione antimafia detta "Ghiaccio".

Il nome di Guttadauro è legato anche alla vicenda giudiziaria che portò alla condanna e all'arresto dell'allora presidente della Regione, Totò Cuffaro: i carabinieri, nel corso di alcune intercettazioni a casa di Guttadauro, registrarono conversazioni con Mimmo Miceli, che era assessore comunale alla Sanità a Palermo.

Il boss, aveva anche saputo, della presenza di cimici in casa dal medico Salvatore Aragona, che a sua volta ottenne l'informazione da Domenico Miceli, a cui l'aveva riferita Cuffaro. È il 15 giugno 2001 e la cimice registra: ''Ragiuni avia (ragione aveva, ndr) Totò Cuffaro''. La frase costituì lo spunto per gli accertamenti che svelarono che a riferire al boss l'esistenza di microfoni piazzati dai carabinieri del Ros nel suo appartamento era stato il medico Domenico Miceli, "delfino" di Cuffaro che, a sua volta, aveva avuto l'informazione da Cuffaro.

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