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La bancarotta dell'Amia a Palermo, confermate le condanne dei vertici

La quinta sezione della Cassazione ha confermato la sentenza con cui erano stati condannati per bancarotta fraudolenta i vertici dell’azienda municipale per l’igiene ambientale di Palermo, l’Amia, dichiarata fallita nel 2013. Diventano dunque definitive le pene di 4 anni a testa, inflitte all’ex presidente Vincenzo Galioto, che fu anche senatore di Forza Italia, e all’ex direttore generale Orazio Colimberti, mentre due ex consiglieri di amministrazione, Angelo Canzoneri e Paola Barbasso Gattuso, dovranno scontare 3 anni ciascuno. Ridotta da 10 a 5 anni l’interdizione dai pubblici uffici.
Le modalità di esecuzione della pena sono ancora da definire: i legali dei quattro imputati stanno infatti avanzando istanze al Tribunale di sorveglianza per ottenere misure alternative alla detenzione. A Galioto e agli altri si applica tra l’altro il regime di esecuzione delle pene meno severo previsto dalle norme in vigore all’epoca dei fatti contestati.

L’Amia, erede della vecchia Amnu e oggi sostituita a sua volta dalla Rap (Risorse ambiente Palermo, l’azienda che attualmente si occupa della pulizia della città) era a totale partecipazione del Comune ma venne considerata azienda di diritto privato, in quanto agiva sul mercato. Il 3 luglio del 2020 la prima sezione della Corte d’Appello, presieduta da Maria Elena Gamberini, relatore Mario Conte, nel ritenere colpevoli i quattro imputati (con la sentenza adesso confermata dalla Cassazione) affermò che i fatti erano «molto gravi», escludendo che le modifiche legislative approvate negli ultimi anni avessero inciso sul reato di bancarotta.
Una serie di operazioni fittizie, dirette a truccare i bilanci 2005 e 2006, crearono il dissesto dell’azienda. Le perdite economiche furono nascoste e coperte ed ebbero una «incidenza che risulta fin troppo evidente, almeno come concausa del dissesto dell’Amia Spa, conclamata dal Tribunale» con la sentenza di fallimento. All’elemento oggettivo si aggiunge quello soggettivo: «Gli imputati (hanno) coscientemente posto in essere le operazioni fittizie», proseguiva la sentenza. Secondo la consulenza di Stefano Reverberi, l’esperto consultato dal pm di primo grado, Carlo Marzella, i bilanci furono alterati e a carico di Amia Spa furono applicate imposte Ires per 4.082.093 euro. Nella sostanza, avendo falsamente attestato di essere in ottima salute finanziaria e dunque dopo avere inserito nei bilanci false voci di attivo, la società presieduta da Galioto e diretta da Colimberti divenne debitrice del fisco, dovendo pagare tasse su introiti mai in realtà percepiti. Secondo il consulente l’Amia avrebbe dovuto cessare la propria attività, ma invece la proseguì, provocando una perdita al 31 dicembre 2007 pari a 30.832.928 euro e al 31 dicembre 2008 la cifra record di 181.314.361 euro. Inoltre la società generò perdite per quasi 93 milioni negli «esercizi successivi a quello in cui si è verificato l’azzeramento del patrimonio netto». Cosa che non si sarebbe verificata «se fosse stata posta in liquidazione o fossero stati comunque presi i provvedimenti necessari». Si era celebrato anche un processo per i falsi in bilancio, concluso con assoluzioni e dichiarazioni dj prescrizione. Lo scorso anno il tribunale civile ha condannato il Comune a versare 51 milioni alla curatela fallimentare dell’Amia. Galioto, Colimberti, Canzoneri e Barbasso Gattuso dovranno pagare a loro volta nel complesso 6 milioni.

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