C’era stato un alternarsi di giudizi su Pietro Ippolito, l’imprenditore caseario originario di Resuttano, nel Nisseno, morto lo scorso 13 febbraio all’ospedale «Salvatore Cimino» di Termini Imerese, dov’era ricoverato dopo essere stato contagiato dal Covid-19. Secondo l’ipotesi investigativa dei pm della Direzione distrettuale antimafia, Ippolito, che negli ultimi anni si era trasferito a Campofelice di Roccella, sarebbe stato un estorsore al soldo della famiglia mafiosa dei Farinella, motivo per cui era stato prima arrestato e poi scarcerato nell’ambito dell’operazione «Alastra» del 30 giugno dell’anno scorso. In particolare, si sarebbe trattenuto 20 mila euro, frutto del pizzo che la famiglia Farinella aveva chiesto a un imprenditore edile di Castel di Lucio, nel Messinese. Il 14 settembre, però, il Tribunale del riesame presieduto da Erika Di Carlo (giudice Emanuele Nicosia ed estensore Rocco Cocilovo), in linea con il giudizio già tracciato dal gip del Tribunale di Termini Imerese, Valeria Gioeli, aveva ribaltato la posizione. «Risulta scarsamente verosimile – scrivono i giudici – che i componenti del sodalizio mafioso abbiano continuato a delegare Ippolito, non accusato di far parte della famiglia mafiosa di San Mauro Castelverde, alla riscossione delle somme». In più, i magistrati del riesame sostengono che si deve «piuttosto ritenere che l’indagato abbia sì ricevuto delle somme dall’imprenditore in cambio dei servizi prestati a quest’ultimo, ma che ciò sia stato il frutto di un’autonoma iniziativa dell’indagato, che, lungi dall’aver agito nell’interesse del sodalizio mafioso, ha successivamente subito le pretese estorsive degli appartenenti alla famiglia di San Mauro Castelverde, che l’hanno costretto a versare quanto incassato». Motivazioni impugnate dai pm della Dda in Cassazione, che proprio recentemente ha annullato l’ordinanza invitando il Tribunale del riesame a una nuova pronuncia. Ma, come sostiene l’avvocato Domenico Trinceri, essendo morto l’indagato, non ci sarà un nuovo riesame.