Mafia, la nuova cupola a Palermo: si indaga anche sull'omicidio del boss Dainotti. "Troppe ingerenze"
Un mese prima di essere ammazzato a colpi di pistola in via D’Ossuna girava voce che fosse “un cornuto sbirro e carabiniere”, un’accusa tra le più gravi per un boss di Cosa nostra del calibro di Giuseppe Dainotti, freddato la mattina del 22 maggio dell’anno scorso. Il retroscena sul delitto – tuttora irrisolto – come si può leggere in un articolo pubblicato sul Giornale di Sicilia oggi in edicola, emerge dall’ordinanza “Cupola 2.0” che ha portato a 47 fermi. Ma non è l’unico particolare, perché – in base alle intercettazioni – si scopre anche che dieci giorni prima di essere ucciso, Dainotti si sarebbe “immischiato” nella complessa vicenda dell’estorsione al bar “Manila” di via Galilei ed avrebbe preso le difese della vittima, mettendosi così contro uno dei capi del mandamento di Porta Nuova, Tommaso Di Giovanni, che avrebbe invece appoggiato il presunto aguzzino, Rubens D’Agostino. Dainotti, condannato all’ergastolo, aveva trascorso in carcere più di un quarto di secolo ma – grazie ai benefici della legge Carotti – nel 2016 era tornato libero. In base alle indagini dei carabinieri, il boss avrebbe tentato subito di rimettersi nel giro e, vista la sua carriere criminale, avrebbe aspirato ad “acquisire la massima carica mafiosa nel territorio di Porta Nuova”. A determinarne l’omicidio, a un anno dalla scarcerazione, potrebbe essere stata, come scrivono gli inquirenti nel fermo, “proprio la sua ingerenza nelle delicate dinamiche associative”. Sta di fatto, però, che la notizia del delitto sarebbe stata accolta con sorpresa dai mafiosi detenuti al Pagliarelli: “Tutti, tutti” diceva infatti il boss Paolo Calcagno alla moglie durante un colloquio avvenuto a tre giorni dall’uccisione di Dainotti “erano sorpresi” e aggiungeva che l’omicidio rientrava tra le “cose che fanno solo male”.