La seconda sezione del tribunale di Palermo ha condannato otto persone che avrebbero curato a vario titolo gli affari del clan dell’Acquasanta, in particolare sul fronte immobiliare, in modo da riciclare enormi capitali accumulati illecitamente. Le pene più pesanti sono state inflitte a tre appartenenti alla famiglia mafiosa dei Graziano: 14 anni e 2 mesi a Francesco, 6 anni ad Angelo e 4 anni e 2 mesi al boss Vincenzo. Dovrà invece scontare 6 anni l’ingegnere Francesco Cuccio, mentre 2 anni e 9 mesi a testa è la pensa inflitta a Giuseppe ed Ignazio Messeri. A 1 anno e 10 mesi è stato poi condannato Giorgio Marcatajo, figlio del noto civilista Marcello Marcatajo (coinvolto anche lui nell’inchiesta, ma deceduto due anni fa) e 1 anno e mezzo, infine, è stato inflitto a Maria Virginia Inserillo. Le accuse per gli imputati erano a vario titolo di riciclaggio, reimpiego di capitali illeciti, peculato ed intestazioni fittizia di beni, aggravati dall’aver favorito Cosa nostra. L’inchiesta – denominata “Cicero” – risale al gennaio del 2016, quando scattarono gli arresti da parte della guardia di finanza, coordinata dai sostituti procuratori Amelia Luise, Annamaria Picozzi e Roberto Tartaglia. Il nome di Marcello Marcatajo era stato ritrovato su un pizzino tra le carte sequestrate a Graziano e da lì erano partite delle intercettazioni. Secondo l’accusa, l’avvocato si sarebbe prestato a stipulare una serie di compravendite immobiliari per i Graziano e anche per i Galatolo. La conferma a queste tesi era arrivata peraltro dalle dichiarazioni di Vito Galatolo, ex rampollo della famiglia dell’Acquasanta che poi si era pentito. Secondo il collaboratore di giustizia, tra l’altro, dalla vendita di diversi box curata da Marcatajo si sarebbero ricavati 250 mila euro destinati poi – a suo dire – all’acquisto del tritolo che avrebbero dovuto essere utilizzato per ammazzare il pm Nino Di Matteo. L’esplosivo, nonostante lunghe e complesse ricerche, non è mai stato ritrovato.