PALERMO. Hanno confermato le accuse 5 delle 10 vittime del racket del pizzo, tutte bengalesi, citate a deporre al processo, in corso davanti alla terza sezione del tribunale di Palermo, a nove estorsori palermitani. In un’aula presidiata dalle forze dell’ordine e chiusa al pubblico per motivi di sicurezza, i commercianti taglieggiati hanno deposto contro gli estorsori presenti indicandoli e ricordando le vessazioni e le violenze subite. Molti degli imputati arrestati dopo le denunce degli extracomunitari sono stati scarcerati dal tribunale del Riesame e vivono nel loro stesso quartiere, Ballarò. Ad accompagnare i testimoni al banco dei testi sono stati gli appartenenti all’associazione antiracket Addiopizzo il cui ufficio legale li assiste anche in giudizio: le vittime si sono costituite parte civile. Alla sbarra sono finiti Giuseppe Rubino, Emanuele Rubino, Giacomo Rubino, Vincenzo Centineo, Giovanni Castronovo, Emanuele Campo, Alfredo Caruso, Santo Rubino e Carlo Fortuna. Sono accusati di estorsione aggravata dal metodo mafioso e dalla discriminazione razziale. Come è emerso durante le indagini, chiunque volesse lavorare nel quartiere doveva sottostare alle «regole» del racket. A tappeto i bengalesi, che nel centro storico gestiscono negozi di alimentari, piccole botteghe e agenzie di viaggio, erano costretti a pagare gli estorsori. «Questi me li dai per i carcerati e se fai denuncia ti ammazzo», una delle minacce che Alfredo Caruso rivolgeva solitamente alle vittime. Oltre ai bengalesi si sono costituiti parte civile il Centro Pio La Torre, difeso dagli avvocati Francesco Cutraro ed Ettore Barcellona, Confindustria, Confesercenti, Confcommercio, il Comune di Palermo, la Federazione delle associazioni antiracket, Sos Impresa e la stessa Addiopizzo. Gli estorsori appartenevano al clan Rubino. Uno degli imputati sparò contro un immigrato del Gambia che si era opposto ai suoi diktat.