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"Elemosina, carità e digiuno": l'appello dell'arcivescovo Lorefice per la Quaresima

PALERMO. Pregare, digiunare, fare l’elemosina e vigilare nella carità. È questa l’esortazione di monsignor Corrado Lorefice ai palermitani oggi mercoledì delle Ceneri, inizio ufficiale della  Quaresima, il periodo di riflessione e penitenza, concluso il quale, tra 40 giorni, si festeggerà la Santa Pasqua.

L’arcivescovo ha diffuso un messaggio alla chiesa palermitana per la Quaresima. Lo spunto di riflessione nasce dal messaggio di Papa Francesco, che  invita a riflettere su un versetto del Vangelo di Matteo: "Per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti". Il Papa mette in guardia da falsi profeti che hanno il potere di raffreddare la carità e individua alcuni segni di questo raffreddamento comunitario della carità: “L’accidia egoista, il pessimismo sterile, la tentazione di isolarsi e di impegnarsi in continue guerre fratricide, la mentalità mondana che induce ad occuparsi solo di ciò che è apparente, riducendo in tal modo l’ardore missionario”.

“La Quaresima presiede al risveglio dell’ ‘uomo interiore’ e riconsegna alla percezione della nostra fragilità umana e ci fa riscoprire come realmente abbiamo fatto albergare il peccato nella nostra vita – continua Lorefice - Ci dice che non abbiamo vissuto secondo i dettami della nostra coscienza illuminata dalla legge di Cristo. Prima dello stesso comandamento dell’amore, la legge dei cristiani è Cristo che vive in noi. Dobbiamo ammettere che nel nostro cuore si è raffreddata la carità, l’energia di Cristo, il dono dello Spirito, la vita nuova. La Quaresima ci fa fare verità in noi stessi. Riconoscere il nostro peccato, la nostra aridità spirituale, l’esserci fatti contagiare nel male: è questo il primo risultato di una Quaresima vissuta con autentico impegno”.

È  potente il segno delle ceneri sul capo del seguace di Cristo all’inizio della Quaresima, il segno che la Chiesa sa di anno in anno di dover accogliere come grazia di conversione. “Si tratta in concreto di mettersi in discussione, di aprirsi all’umile riconoscimento dei propri limiti e delle proprie responsabilità, imparando a chiedere scusa invece di pretenderla, a riconoscere il proprio frammento di tenebra nel confronto franco e libero con l’altro – precisa Lorefice - Si tratta di non sentirci collocati per principio nel consesso dei giusti, ma di metterci in fila con i peccatori, come il pubblicano della parabola che torna a casa giustificato perché umilmente consegna a Dio la consapevolezza della sua distanza da Lui e dunque non si erge a giudice degli altri, ma si fa loro umile compagno nella ricerca della fedeltà alla Parola”.

Lorefice invita i credenti a leggere e meditare la Parola di Dio contenuta nelle Sacre Scritture, sempre più assiduamente.  L’arcivescovo invita anche ad intensificare la preghiera e ad ascoltare lo Spirito che “Parla nel cuore dei credenti è la perla preziosa di questo tempo che ci apprestiamo a vivere. Nel suo dinamismo profondo la preghiera quaresimale è un portare a Dio tutta la nostra vita, anche i suoi luoghi più periferici e doloranti, anche i meandri dei suoi smarrimenti e delle sue oscurità, affidandoli allo Spirito che li tramuta in un grido levato giorno e notte al Padre, perché venga il suo Regno. Quando tutta la vita entra nella preghiera, tutta la vita viene trasformata. Scendiamo allora in noi stessi e non lasciamo fuori nulla – ha precisato Lorefice - Le ipocrisie, i tradimenti, le doppiezze dei discepoli del Signore, di noi che siamo la sua Chiesa, nascono proprio da qui”.

Don Corrado inviata a ritornare a valorizzare il digiuno per ricercare il “pane essenziale” della vita e per la vita, il vero cibo per resistere alle lusinghe ammalianti del maligno, custodendo un cuore retto, audace nella ricerca e nell’attuazione del bene. “L’uomo non vive di solo pane". Con il digiuno sviluppiamo un più autentico rapporto con noi stessi. Scegliere di digiunare significa creare una condizione di mancanza in cui chiediamo che ci sia un altro cibo, donato da un Altro, che ci sostenga, dando così pienezza di senso a tutta la nostra vita. E mentre digiuniamo ci uniamo a tutti i fratelli che in tutto al mondo al digiuno – dal cibo, dalla pace, dalla bellezza, dalla vita stessa – sono costretti dalla durezza del mondo e dalla violenza della storia”.

L’invito di Lorefice è di essere generosi nell’elemosina, vigilanti nella passione della carità, nella prossimità all’altro, con uno sguardo attento a “comprendere” il suo bisogno, a provare sentimenti di “con-divisione” verso di lui, ad averne cura con il cuore, con la mente, con tutte le forze che abbiamo a disposizione, negando ogni lontananza e ogni estraneità. Ascoltando il clamore della terra e dei poveri che gridano il bisogno di custodia, di cura, di fraternità e di solidarietà.

“L’elemosina è il modo attraverso cui ci riappropriamo del nostro legame con l’altro. Noi umani ci apparteniamo. L’altro è un mio simile. Nel volto dell’altro mi riconosco, solo il volto dell’altro mi dà la giusta misura della mia creaturalità e mi riconsegna alla continua scoperta dell’incontro solidale con gli altri uomini. L’altro che tende la mano ci pone il problema della “collocazione” dell’elemosina. Si tratta infatti di un gesto che non appartiene solo alla generosità della carità personale ma anche al dovere della giustizia. Il fratello che tende la mano ci aiuta a dilatare gli spazi del necessario e scoprire ogni volta come oggi venga spesso considerato necessario il superfluo. L’elemosina allora ci interroga su quale sia la nostra apertura agli altri, ad ogni altro uomo, perché su questo si misura la carità non raffreddata. Ma il gesto dell’elemosina ci interpella su quale sia il nostro impegno per la giustizia, affinché la tanto sbandierata uguaglianza degli uomini e delle donne che abitano la casa comune e le nostre città sia veramente realizzata attraverso l’effettiva cura degli ‘ultimi’.

"Perché nell’elemosina - prosegue don Corrado - la povertà viene compresa come frutto dell’ingiustizia. Nell’elemosina si restituisce e non si dona. La vera elemosina può viversi solo se si è disposti a chiederla l’elemosina, a riconoscere cioè che siamo tutti poveri, siamo tutti accattoni. Il soccorso dell’altro non è un gesto di benevolenza, ma l’esigenza imprescindibile che deriva da una profonda comprensione di noi stessi –puntualizza Lorefice - Se la povertà del fratello ci apre alla nostra povertà ci consente di tenere caldo il cuore, perché l’amore non si raffreddi, in noi e nella città degli uomini. Una Chiesa che prega, che digiuna, che fa l’elemosina è una Chiesa che ha riscoperto il proprio Sposo e sa nutrire i figli che dà alla luce. Mettendoci su queste strade diventiamo più uomini, più cristiani, agiamo, magari senza saperlo, perché ogni uomo e ogni donna possano riscaldarsi e alimentare l’olio della loro lampada, in attesa della venuta del Signore”.

“Auguro a tutti voi e ad ogni uomo di buona volontà, in questa mia amata Diocesi, di vivere giorni di grazia: entriamo in contatto con noi stessi – conclude Lorefice - assumiamo la nostra umanità, apriamoci all’urlo di dolore degli altri uomini, e accogliamo Dio che si dona a noi”.

 

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