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Terrorismo, condannata la ricercatrice libica fermata a Palermo

Kadiga Shabbi

PALERMO. È stata condannata a un anno e otto mesi (pena sospesa) Kadiga Shabbi, la ricercatrice universitaria libica fermata a dicembre a Palermo per istigazione a delinquere in materia di reati di terrorismo. Il gup ha riconosciuto l'aggravante della finalità terroristica e dell'uso del sistema informatico, mentre ha negato quella della transnazionalità. Il pm aveva chiesto la condanna a 4 anni e 8 mesi.

Shabbi era tornata in carcere a giugno dopo che la Cassazione ha confermato la decisione dei giudici del Riesame che avevano annullato il provvedimento con cui il gip aveva disposto per la donna l'obbligo di dimora e non la custodia cautelare in carcere chiesta dalla Procura.

Il provvedimento del collegio palermitano non era stato, però, eseguito perché i legali della libica avevano fatto ricorso in Cassazione. In Italia era arrivata tre anni fa. Ed era riuscita a vincere un dottorato di ricerca in Economia all'Ateneo di Palermo. Le sue tradizioni, la sua fede e le sue convinzioni politiche, però, non le avrebbe mai dimenticate. E, dietro la professione ufficiale di ricercatrice universitaria, sostengono gli inquirenti, ha nascosto una rete di contatti con esponenti di organizzazioni terroristiche islamiche e foreign fighters e una fitta attività di propaganda in favore di Al Qaeda.

Contro di lei gli investigatori hanno prodotto intercettazioni telefoniche e i dati dei suoi pc. L'inchiesta della Digos su Shabbi prende il via da alcune segnalazioni. La polizia comincia dal web mettendo in luce una intensa attività di propaganda svolta dalla ricercatrice in favore di una serie di organizzazioni terroristiche islamiche come Ansar Al Sharia Libya, tra le maggiori oppositrici del governo di Tobruk, e del suo leader Ben Hamid Wissam.

La donna - secondo l’accusa - interessatissima alle vicende politiche del suo Paese, visitava continuamente le pagine Facebook di diversi gruppi legati all'estremismo islamico, condivideva sul suo profilo del social network materiale di propaganda della attività di organizzazioni terroristiche: volantini, 'sermoni' di incitamento alla violenza e scene di guerra.

Dall'inchiesta sono emersi anche contatti con due foreign fighters che avevano combattuto in Libia ed erano poi tornati in Inghilterra e in Belgio. La ricercatrice avrebbe anche tentato di fare avere un visto di studio al nipote, Abdulrazeq Fathi Al Shabbi, combattente ricercato dalle truppe dell'esercito regolare, vicino all'organizzazione Ansar al Sharia, formazione salafita collegata alla rete di jihadismo internazionale autrice, nel 2012, dell'attentato a Bengasi al Consolato americano. Il ragazzo sarebbe morto in un conflitto a fuoco e in Italia non sarebbe mai giunto. In diverse intercettazioni la donna chiede vendetta per il nipote.

"Ora che è stata scarcerata, la mia cliente riprenderà il suo lavoro all'università di Palermo visto che la sua borsa di studio, pagata dall'ambasciata libica, non è mai stata sospesa". Lo dice l'avvocato Michele Andreano, difensore della ricercatrice. "Rispetto al quadro delineato dalla procura, che era devastante - ha aggiunto -, la vicenda è stata ridimensionata. Dire che siamo soddisfatti è improprio, visto che, per noi, doveva essere assolta con formula piena, ma in questa fase il nostro primo interesse era legato alla libertà personale e da questo punto di vista è andata bene". L'avvocato, che ha annunciato che comunque ricorrerà in appello, ha aggiunto: "la mia cliente non ha commentato il verdetto, ma quando ha sentito che sarebbe stata scarcerata è scoppiata a piangere per la gioia".

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