PALERMO. Le deposizioni di Pietro Liga e della figlia Maria non hanno convinto la Procura che ha chiesto la condanna a sei anni per il presunto boss mafioso e quattro anni ciascuno per la moglie e la figlia, coinvolte nel tentativo di estorsione del padre. Il processo si svolge con il rito abbreviato davanti al gup Nicola Aiello.
Tutto comincia nel braccio "Libeccio" del carcere Pagliarelli di Palermo. Le richieste estorsive sarebbero andate avanti da agosto a ottobre 2014 e cioè pochi mesi dopo che la vittima - un componente della famiglia Granà - era stata arrestata nel blitz dei carabinieri Reset del giugno precedente. Ed è proprio nelle carte dell'ordinanza che Liga, raggiunto dallo stesso provvedimento nel carcere dove era rinchiuso dal 2013, ha letto le parole ritenute lesive della sua dignità di uomo d'onore ("sbirro").
E così, quando era ancora al Pagliarelli, Liga - secondo la Procura - avrebbe avvicinato Granà nella cappella chiedendogli 20 mila euro. Se non avesse pagato sarebbero scattate le ritorsioni nei confronti dei familiari. Poi lo "sconto" a 2.500 euro, che i parenti del detenuto avrebbero dovuto consegnare alla moglie e alla figlia di Liga, in base alle direttive ricevute durante i colloqui. Ma proprio i colloqui "incriminati" sono stati smentiti dagli avvocati che hanno dimostrato che in quei giorni Granà (che sarebbe stato indicato da Liga ai suoi parenti) non era nell'aula destinata agli incontri.
Nelle scorse udienze, Liga si è difeso per oltre mezz'ora. "Sono due le cose - ha detto - sono un boss o sono pazzo. Se sono un boss, come è possibile che mi servo di mia moglie e di mia figlia per fare le estorsioni? Secondo voi un boss non trova altre persone?". Ha negato tutto anche la figlia Maria. "Non ho mai estorto dei soldi a nessuno - ha detto - Uno come mio padre non avrebbe mai permesso che la moglie e la figlia si occupassero di certe cose".
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