PALERMO. La camera di consiglio è stata breve. Al contrario del processo che, nonostante la scelta del rito abbreviato, si è trascinato per quasi due anni. Alle 10:55, poco più di un'ora dopo essersi ritirata per la decisione, il gup Marina Petruzzella ha letto il dispositivo della sentenza che ha assolto "per non avere commesso il fatto" l'ex ministro Dc Calogero Mannino. E' il primo verdetto, la prima valutazione che un giudice terzo fa sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, il patto occulto con i boss, stretto da pezzi delle istituzioni, per far finire le stragi. Davanti alla corte d'assise di Palermo si celebra, in ordinario, la seconda tranche del procedimento, quella ai capimafia, agli ex ufficiali del Ros dei carabinieri, ad ex politici e a Massimo Ciancimino. E che il macigno che si è abbattuto sull'impianto su cui i pm di Palermo lavorano da oltre sette anni non avrà refluenze sul processo principale stentano a crederlo anche i magistrati dell'accusa che, però, rilanciano. "Impugneremo la sentenza, andiamo avanti", hanno detto uscendo dal tribunale l'aggiunto Vittorio Teresi e i pm Roberto Tartaglia e Nino Di Matteo. Mentre il capo della Procura, Francesco Lo Voi, arrivato a guidare l'ufficio a processo in corso, ha precisato: "l'appello è probabile, ma si devono leggere le motivazioni. Anticipare giudizi è inutile". Per l'ex ministro l'accusa aveva chiesto la condanna a 9 anni. Tira un sospiro di sollievo l'imputato che, giorno più giorno meno, tra un processo e l'altro, entra ed esce dalle aule di giustizia da ben 22 anni. Prima assolto dall'accusa di concorso in associazione mafiosa dopo tre giudizi di merito e un annullamento della Cassazione, ora accusato di minaccia a Corpo politico dello Stato. Per i pm, dopo l'omicidio del collega di partito Salvo Lima, sarebbe stato lui a dare input al dialogo che lo Stato, per il tramite dei carabinieri del Ros, avrebbe avviato con Cosa nostra. Sul piatto della trattativa, la salvezza di Mannino, nel mirino di Totò Riina dopo l'esito infausto del maxiprocesso, e la fine delle stragi in cambio di un passo indietro dello Stato nella strategia di contrasto ai boss. Ad esempio con l'alleggerimento del carcere duro. Passo indietro sempre negato da Mannino, che ha rivendicato tra l'altro l'appoggio politico a Giovanni Falcone per il suo trasferimento agli Affari penali del ministero della Giustizia. "E' la fine di un incubo giudiziario. E' una sentenza coraggiosa - ha detto l'ex potente ministro dc - Io ho fiducia nella Giustizia, meno nei confronti di certi pubblici ministeri ostinati e accaniti". Il riferimento è a Vittorio Teresi che istruì il processo per concorso esterno in associazione mafiosa che vide assolto Mannino, che chiese ed ottenne poi l'applicazione in appello per continuare a sostenere l'accusa e oggi coordina il pool che indaga sulla trattativa Stato-mafia. Durissimo anche su Di Matteo: "ha già fatto condannare innocenti", ha detto l'imputato riferendosi al processo per la strage Borsellino su cui pende un giudizio di revisione. "Fiero delle condanne definitive ottenute", risponde a breve giro il magistrato. Nel dispositivo il gup usa la formula "per non avere commesso il fatto" e fa riferimento al secondo comma dell'articolo 530 del codice penale che prevede il proscioglimento quando la prova è insufficiente. Circostanze che inducono alcuni pm a sostenere che, in fondo, il giudice non ha negato l'esistenza della trattativa, altrimenti avrebbe utilizzato altre formule assolutorie, lasciando spiragli aperti al processo principale. Processo che prosegue e vede imputati Marcello Dell'Utri, Nicola Mancino, l'ex capo del Ros Antonio Subranni che, su pressione di Mannino avrebbe indotto Mario Mori e Giuseppe De Donno, suoi uomini al Raggruppamento speciale a contattare Vito Ciancimino per avviare il dialogo, prima con Riina, poi con Bernardo Provenzano. Tesi rafforzata dalle accuse del figlio di don Vito, Massimo Ciancimino, teste dalle alterne fortune giudiziarie che presto si troverà a deporre al processo.