PALERMO. «Quel pomeriggio del 23 maggio del1992 ero al lavoro come sostituto alla Procura di Palermo e mi stavo occupando di un sequestro di persona. Mi chiamò molte volte la squadra mobile di Palermo, per motivi di lavoro . E quando squillò ancora una volta il telefono ero convinto si
trattasse di una nuova comunicazione della Questura. E invece gli stessi funzionari con cui ero in contatto, mi avvisavano di un grave fatto accaduto, di cui non si conoscevano ancora i dettagli».
Alfredo Morvillo, procuratore della Repubblica di Termini Imerese e fratello di Francesca Morvillo, moglie del giudice Giovanni Falcone anch'essa uccisa a Capaci, racconta a «Voci del mattino», Radio 1, i drammatici momenti in cui
apprese della strage. «Quando si è in prima linea come lo era Giovanni, ci si
abitua a convivere con una certa tensione e si ci concentra unicamente sul lavoro. - aggiunge - Giovanni non sottovalutava i rischi cui andava incontro, ma da quando era Direttore al Ministero di Grazia e Giustizia, a Roma, aveva un pò allentato l'attenzione sulla sicurezza, tanto è vero che qualche volta
capitava di andare da soli, senza scorta, a fare due passi o al ristorante». «È noto a tutti - continua - che Falcone avesse maturato rapporti difficili con taluni ambienti giudiziari e gli ostacoli incontrati lo avevano convinto a spostarsi a Roma, al Ministero. Alcuni, ben individuati colleghi, lungi dal
riconoscere a Giovanni la sua grande capacità analitica e investigativa, non convinti del lavoro di squadra, lo ostacolarono in tutti i modi. Arrivarono anche a prenderlo in giro dicendo che, dopo la Procura Nazionale Antimafia, il suo obiettivo era creare la 'Procura planetarià. In conclusione, all'interno del tribunale vi era una parte di colleghi che sicuramente non lo amava».
Per Morvillo inoltre «se si voleva eliminare soltanto Falcone, non serviva mettere in piedi un progetto criminale così clamoroso, con il rischio di uccidere decine di persone. Giovanni, come dicevo, a Roma aveva un pò allentato le misure di sicurezza, pertanto ucciderlo lì non sarebbe stato affatto
impossibile. Bastava pedinarlo mezza giornata e poi colpire. Chi ha ucciso Falcone voleva che questo atto avesse una chiara, inequivocabile impronta mafiosa; quindi, fatto a Palermo, con metodi mafiosi, in modo che per tutti fosse evidente che era stata la mafia e che non si potesse pensare ad altro».
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