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"La gelosia morbosa è un reato", un palermitano sotto accusa

PALERMO. Finisce l'era dell'impunità per gli inguaribili Otelli: a dire basta è la Cassazione che ha annullato l'assoluzione dall'accusa di maltrattamenti per un marito siciliano con l'incubo delle corna che avrebbe assillato la moglie individuando in ogni suo respiro una occasione di infedeltà.

La «gelosia morbosa», fatta di continui controlli sul cellulare, insistenti contestazioni di tradimenti inesistenti, reiterate richieste della prova del Dna sui figli, pressioni per farle abbandonare il mestiere di assistente di volo non adatto 'a donne per benè, assume le caratteristiche di quel «comportamento vessatorio» che - per la Suprema Corte - è punito ed è punibile in base al reato di maltrattamenti (art.572 cp).  Per questo Riccardo D.G., cinquantenne, tornerà sotto processo innanzi alla Corte di Appello di Palermo che il 22 maggio del 2014 lo aveva assolto dall'accusa di aver maltrattato la moglie Daniela C., ritenendo invece non punibile la sua gelosia.

Gli era stata pertanto ridotta la condanna a un anno e sei mesi (non si conosce la pena originaria) ritenendo provato solo lo stalking, per alcuni sms alla consorte, corroborato dalle dichiarazioni della stessa 'vittimà e dei suoi parenti.  A fare ricorso insistendo per il ripristino della condanna per maltrattamenti, inflitta dal Tribunale di Palermo il 7 marzo 2013, è stata la Procura generale di Palermo che ha reclamato, con successo, in Cassazione. Anche se tutta la vicenda - colpevolezza compresa, come si vedrà più avanti - torna ora in alto mare, il Pg ha avuto l'importante appoggio dei supremi giudici nell'aver individuato la portata criminogena della gelosia ossessiva che non può essere tollerata come innocuo ingrediente dei rapporti connotati da «litigiosità».

Rivolgendosi a sua volta agli 'ermellinì, ha avuto soddisfazione anche il marito. Riccardo D.G., infatti, ha ottenuto la riapertura dell'istruttoria dibattimentale. Per la Suprema Corte i giudici di merito hanno sbagliato a ritenere ininfluente («inconducente», per l'esattezza, il termine utilizzato nella sentenza) il fatto che la denuncia della moglie era avvenuta successivamente alla presentazione del conto da 300 mila euro nella causa civile che lui aveva intrapreso contro i suoceri, «per il mancato pagamento delle retribuzioni quale dipendente» della loro società.

Si tratta di una cifra «importante», rileva la Cassazione, in grado di dimostrare «la sussistenza di motivi di astio dell'accusante, e dei suoi familiari chiamati a deporre a riscontro, nei confronti dell'imputato» e non può essere bollata come elemento ininfluente ai fini della valutazione di attendibilità «della principale teste a carico e dei testimoni a riscontro».  Adesso, questo intricato parapiglia sarà riesaminato - compresa la giusta ponderazione del fattore 'gelosià - e nel caso in cui nell'appello bis dovesse emergere che le accuse di moglie e suoceri non sono vere, ma sono una ritorsione contro l'esoso Riccardo, verrà annullata anche la condanna per lo stalking per la quale Daniela aveva chiesto un risarcimento danni con costituzione di parte civile.

In Cassazione, davanti ai giudici della Sesta sezione penale - presidente Antonio Agrò, relatore Alessandra Bassi - il marito è stato difeso dall'avvocato Raffaele Bonsignore che ha dovuto lottare non solo contro l'avvocato Antonio Paciotta, difensore della moglie, ma anche contro la Procura della stessa Suprema Corte. Il Pg Roberto Aniello, infatti, aveva chiesto che fosse resa definitiva la condanna per lo stalking e che si riaprisse il processo per i maltrattamenti da gelosia ossessiva. Ma i supremi giudici - con la sentenza 20126 - vogliono andarci con i piedi di piombo e si sono dimostrati preoccupati sia dall'eventualità che la gelosia fuori controllo resti impunita sia dal rischio che una denuncia sia usata come antidoto a una 'costosà causa civile

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