PALERMO. «Vent’anni di storia di Cosa nostra ci sono qua, non ci sono dubbi», dice di se stesso Vito Galatolo nel suo primo interrogatorio al procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, al pm Gabriele Paci e all’aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi.
Non fa sfoggio di modestia, il neopentito dell’Acquasanta, e va dritto al sodo: «Lo scopo dell’attentato a Di Matteo era fargli capire, a lui e a tutti, che Cosa nostra è viva e comandiamo noi». È quando gli chiedono di indicare il proprio lavoro da libero, che il figlio di Enzo il Tripolitano, una terza media rimediata alla bell’e meglio in carcere, ha invece qualche difficoltà; di lavoro non ne ha mai voluto e gestiva le imprese con cui comandava ai Cantieri navali, ma non sa dire nemmeno in che veste: «Risultavamo operai, però eravamo i padroni delle ditte delle pulizie».
Soldato semplice o imprenditore che fosse, Galatolo non esita nell’indicare i Cantieri come il luogo in cui l’ingerenza del suo clan raggiungeva i massimi livelli: «Quella è una zona che abbiamo da più di quarant’anni, la gestiva mio padre, capo famiglia rappresentante, Vincenzo Galatolo. Ci sono le estorsioni dentro e fuori i Cantieri navali e poi noi non avevamo tanto bisogno di fare estorsioni nelle varie botteghe, perché ci avevamo i Cantieri nelle mani, la costruzione con i Graziano...».
La famiglia mafiosa del quartiere, ricadente nel mandamento di Resuttana, un tempo era composta dai Galatolo e dai cugini Fontana, ma ora siamo i «Galatolo-Graziano, questa è la nuova famiglia dell’Acquasanta». I costruttori Graziano sarebbero ormai gli alter ego dei capimafia: Galatolo dice di voler consegnare «tutto quello che ci ho di illecito delle mie competenze, perché non c’è valore, non si comprano i figli con i soldi, non c’è valore per salvare i figli. Non mi interessa, lo faccio (collaboro, ndr) perché è giusto che i miei figli vedano un futuro migliore».
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