PALERMO. È chiara, precisa, netta. La faccia da bambina dimostra meno dei vent'anni che ha, ma quel che dice la fa sembrare un'adulta. Aveva appena compiuto diciotto anni, ma l'età più bella le è stata rubata a colpi di coltello, quel 19 ottobre del 2012. E il nome di Samuele Caruso, il giovane assassino che si è portato via sua sorella Carmela e ha ferito gravemente lei, Lucia Petrucci non lo fa mai. Caruso è solo un pronome, per la giovane miracolosamente sopravvissuta all'agguato che l'ex cosiddetto fidanzatino tese a lei e a Carmela, nell'androne del palazzo in cui abitavano con la famiglia, in via Uditore: «Finché avrò vita io - dice Lucia - lotterò perché rimanga lì dov'è, in carcere. Non voglio chiedergli nulla, non mi interessa. Cosa vorrei dirgli? ”Soffri quanto ho sofferto io, anzi il triplo e non sarà mai abbastanza, dato che mia sorella non torna”. Io non chiedo pietà né commiserazione. Ma non voglio che ci sia pietà per lui».
Ti guarda dritto negli occhi mentre parla, Lucia. Accanto a lei il padre, Serafino Petrucci, la mamma, Giusy Mercurio, dipendenti regionali, il fratello Antonino, studente di Giurisprudenza. Il processo di appello comincerà dopodomani: l'imputato, che ha 25 anni, in primo grado fu condannato all'ergastolo per l'omicidio di Carmela e il ferimento di Lucia, che si salvò miracolosamente grazie a una vicina. Il giudizio abbreviato si terrà davanti alla corte d'assise d'appello, composta anche dai giudici popolari: «È un pensiero comune - spiega con freddezza solo apparente Lucia - che possa essergli ridotta la pena e che possa uscire dal carcere, un giorno. Sarebbe una giustificazione della barbarie».
I Petrucci sono patrocinati come parte civile dall'avvocato Marina Cassarà.
Lucia tiene a dire alcune cose. Le dice, ma le scrive pure, con la sua grafia di studentessa appena entrata al secondo anno di Lettere, cinque esami su sei sostenuti, il sogno di diventare insegnante di italiano, ma all'estero. «La mia giornata inizia quando ho ancora gli occhi chiusi. La prima sensazione che ho è di trovarmi nel letto dell'ospedale, con i muscoli irrigiditi e la testa confusa. Poi apro gli occhi e capisco di essere nel mio letto, nella mia stanza. Dove tutto è rimasto uguale da due anni». Spiega a voce che quella stanza è stata lasciata intatta, come se Carmela dovesse tornare, «ma non torna, non torna più». Papà Serafino, che non sopportava gli animali, le ha regalato una cagnolina: «E i vestiti, le scarpe, la chitarra di Carmela sono rimasti sempre qui, dove li ha lasciati lei».
Dice Lucia che gli altri, gli amici, i conoscenti, gli estranei, sono molto discreti con lei: «Ma io non ho bisogno di persone che mi vengano a confortare - spiega indurendo quel visetto da bambolina -. Devo fare fisioterapia ogni giorno, per cercare di recuperare un po' dalle conseguenze delle ferite. Non posso più correre. Avevamo aspettato che aprissero questo benedetto Parco Uditore, vicino casa, per andarci a fare jogging. Ma non ci siamo mai entrati». Dal 25 ottobre 2012, da quando in ospedale le dissero che la sorella era morta, ha rimosso tutto: «Non ricordo più nulla nemmeno del viaggio che feci con Carmela a Brighton e dal quale eravamo appena tornate. Prendo una pillola per la tachicardia, ogni giorno, da quando mi dissero che non avrei più riabbracciato mia sorella. I battiti mi arrivano a 180 al minuto». Di nuovo la lettera: «Con la sua assenza devo combattere ogni giorno per non crollare, per essere forte, per la mia famiglia e per Carmela, che spesso mi chiedeva di essere forte per lei, che è sempre stata più fragile. Ma io non sono forte. Io cerco solo di non crollare davanti alle persone che so che crollerebbero assieme a me. Molti mi chiedono dove trovo la forza. Rispondo che non ho alternative: se mi fermo sono morta anche io. E lei non l'avrebbe mai voluto».
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